Il Terzo Settore: una risorsa vitale che non può essere sottovalutata

Il dubbio e la ragione dei numeri: l’ottimismo della volontà pare essere più attendibile del pessimismo della ragione.

Senza il contributo del Terzo Settore, l’Italia non raggiungerebbe l’attuale livello socio-assistenziale.

Terzo Settore o Terzo Sistema, Non profit, Non a scopo di lucro, Non governativo, Non imprenditoriale.

Queste alcune delle espressioni per identificare tutte quelle realtà che all’interno del nostro sistema socio-economico si collocano a metà tra Stato e Mercato. Con questi termini, infatti, si intende quel complesso di enti privati che sono orientati alla produzione di beni e servizi di utilità sociale. Una prima definizione si ritrova in Europa a partire dalla metà degli anni Settanta del XX secolo; fu usata nel rapporto “Un progetto per l’Europa” in ambito comunitario nel 1978 assegnando al Terzo Settore una posizione che lo separa concettualmente dallo Stato e dal Mercato, anche se si tratta di un fenomeno economico (non un insieme di forme organizzative extra-economiche, come inizialmente sostenuto). Diverse per struttura organizzativa – associazioni riconosciute e non riconosciute, fondazioni, comitati – e natura giuridica – cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontaria to, organizzazioni non governative, società di mutuo soccorso, imprese sociali e Onlus – le realtà del Terzo Sistema hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali, tra le quali l’assenza di scopo di lucro, che si traduce nell’obbligo di reinvestire gli utili nelle attività istituzionali, e la natura giuridica privata. Operano in numerosi settori: assistenza sociale, sanità, cultura, sport, cooperazione internazionale, istruzione e ricerca, ambiente, sviluppo economico e sociale, promozione e formazione religiosa, promozione del volontariato.

Questo Settore nasce in risposta all’impossibilità dello Stato di far fronte all’intera domanda di beni pubblici espressa dai cittadini. Il modello italiano di welfare è un modello egoistico e clientelare. Spesa pubblica senza responsabilità dei cittadini. Si è offerta una certezza sociale costosa ai cittadini senza richiedere nel contempo un impegno, una condivisione e una partecipazione della collettività. Invece, gli enti non a scopo di lucro sono in grado di cogliere i bisogni delle minoranze insoddisfatte ed organizzare nuove modalità di offerta a loro rivolta; inoltre, sono una risposta all’incapacità delle imprese “for profit” di controllare totalmente i propri produttori attraverso gli ordinari meccanismi di Mercato, ovvero i contratti, in quanto sono in grado di esercitare un controllo attraverso un meccanismo alternativo: il vincolo di non redistribuzione degli utili.

Se è vero che un’economia di mercato evoluta debba creare ricchezza per distribuirla, la questione principale riguarda come si possa raggiungere questo obiettivo senza dilapidare il denaro pubblico. Il Terzo Pilastro è la risposta. Il welfare state così come concepito da noi non può reggere più sia per i suoi presupposti (presenza pubblica eccessiva) che per i suoi costi (spesa pubblica fuori controllo). Tra spesa pubblica e mercato esiste una terza via, quella del privato sociale. In tal senso, quest’ultimo si pone quale fine ultimo del proprio agire il perseguimento della pubblica utilità e il conseguente incremento del livello di benessere collettivo.

L’importanza del Terzo Settore, oltre che in termini sociali anche in termini economici, è ormai un argomento consolidato. È l’ottimismo della volontà che pare essere più attendibile del pessimismo della ragione, se i numeri dicono il vero. Il rapporto I.t.a.l.i.a., portato avanti da economisti e ricercatori, dice che, senza il contributo del Terzo Settore, questo Paese non raggiungerebbe l’attuale grado di welfare. La cooperazione in Italia conta 12.570 realtà e occupa 513 mila persone, di cui il 63% a tempo indeterminato (nel complesso, in Europa, sono 14,5 milioni le persone impiegate nell’economia sociale, in crescita dagli 11 milioni del 2003). All’interno del non profit operano 774 imprese, in particolare nei settori della sanita  (58%), dell’assistenza sociale e dell’istruzione, occupando 29 mila persone e coinvolgendo circa tremila volontari con una offerta di beni e servizi per l’80% rivolta direttamente ai cittadini e alle famiglie dei beneficiari.

Nel medesimo rapporto viene anche messo in risalto la quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari e, dunque, dal benessere materiale e immateriale assicurato a chi ha beneficiato delle loro prestazioni.

Sono numeri interessanti: il peso economico del lavoro volontario nel nostro Paese, è pari a quasi otto miliardi di euro sulla base delle ore di volontariato prestate, corrispondente a circa lo 0,7% del Pil. Negli anni più duri della crisi economica, mentre il mercato del lavoro soffriva nelle imprese dell’industria e delle costruzioni, cresceva in maniera costante nel non profit, in particolare negli ambiti sociosanitario e dell’istruzione.

Il comparto sociale non solo è cresciuto in termini di occupati, ma è stato in grado di esprimere un dinamismo che ha aiutato il Paese a contrastare gli effetti della crisi.

Le ragioni di tale successo vanno ricercate in tre elementi che distinguono questo tipo di approccio all’economia.

Anzitutto si tratta di un “modello inclusivo”, fatto di coesione economica, sociale e territoriale.

Un esempio viene dalla cosiddetta sharing economy. 

Questa nuova modalità di consumo, figlia di un approccio più partecipativo di cittadinanza e lavoratori, sta aprendo nuove opportunità di sviluppo. Nascono, cioè, piattaforme capaci di incidere sui monopoli commerciali più consolidati e che potrebbero rappresentare una vera opportunità per le imprese tradizionali, se non percepite come una minaccia, perché rispondono a nuovi bisogni. Un altro elemento proprio del settore è quello della territorialità, cioè la prossimità e vicinanza delle imprese alle comunità di riferimento, il che velocizza la capacità di individuare soluzioni adeguate; non sono più le imprese competitive che fanno i territori competitivi, bensì il contrario: sono i territori con un alto grado di capitale umano a vincere la sfida della qualità e della competizione globale. Infine, un terzo fattore riguarda la sussidiarietà: amministrazione e cittadino sono alleati per realizzare un interesse generale. Un esempio significativo riguarda i microprogetti di arredo urbano, in cui viene riconosciuta la possibilità per gruppi di cittadini di richiedere di intervenire e avere in cambio un vantaggio fiscale.

Ma cosa pensano, invece, le imprese della collaborazione con il Terzo Settore? Ci sono evidenze che le imprese sono ben disposte a porre in essere rapporti di fornitura con soggetti del Terzo Settore al quale viene riconosciuta la capacità di creare valore sia per quanto riguarda il prodotto in sé e il suo rapporto qualità/ prezzo, sia per la componente “sociale” che questo incorpora. I servizi tipici che le imprese acquistano dalle non profit sono per lo più servizi tradizionali (pulizia, manutenzione, cura del verde), quindi con una componente innovativa incorporata nel prodotto molto ridotta. La vera innovazione di questi servizi è però tutta incorporata nel processo produttivo, laddove queste organizzazioni riescono a erogare servizi di qualità e a prezzi competitivi pur impiegando manodopera che, soggetta a vari tipi di svantaggio, ha spesso minori livelli di produttività. Magia? No: tutto questo è il frutto di competenze composite e alta mente specializzate, una cultura aziendale fortemente orientata all’obiettivo e una spiccata attitudine al problem solving. 

In generale, si sta affermando un nuovo stile di vita, più attento all’ambiente e allo sfruttamento consapevole delle risorse disponibili, nel tentativo di emanciparsi dai dogmi del consumismo sfrenato. Anche le imprese si inseriscono in questa tendenza, in quanto la creazione del profitto è ormai legata anche al rispetto dell’ambiente e della società. Nasce, quindi, una nuova modalità di creazione del valore grazie alla collaborazione tra imprese ed enti no-profit in cui i cittadini diventano protagonisti del processo di produzione grazie a innumerevoli iniziative “dal basso”.

Nonostante i molteplici aspetti positivi, ancora molti ostacoli impediscono una più radicale diffusione del Terzo Settore nell’economia e quindi molto lavoro resta ancora da fare. Troppo spesso, infatti, si tende a “mischiare” tra loro valore economico, valore sociale, valore culturale del Terzo Settore. Il che non solamente non giova a definire l’identità specifica dei vari segmenti del non profit, ma soprattutto non aiuta di certo il legislatore a varare leggi espressive sul settore.

Tanto per iniziare, sarebbe possibile alleggerire gli oneri e i costi dello Stato favorendo altre realtà più in grado di combattere la decomposizione del sistema di welfare, per esempio offrendo al Terzo Settore la possibilità di intervenire in campi come l’arte, l’istruzione, la ricerca, la sanità. Infatti, se si vuole conservare l’impianto universalista del welfare e, al tempo stesso, si vuole farla finita con il modello assistenzialistico- paternalistico che abbiamo ereditato dal recente passato, non c’è altra via che quella di prendere sul serio il principio di sussidiarietà: selettività, efficacia, solidarietà sono le caratteristiche di un nuovo modello di welfare fondato con l’aggiunta di un terzo pilastro. In pratica, dal tradizionale modello settoriale, che vedeva pubblico, privato e società civile distinti, ognuno con i propri compiti, ci si dovrà spostare verso un modello ibrido, in cui i tre settori sono sempre più strettamente legati e collaborano tra di loro, co-producendo beni e servizi, ed impegnandosi congiuntamente per rispondere alle necessità sociali.

È degno di nota che già Alexis de Tocqueville, in un saggio poco noto, ma di notevole spessore (Il Pauperismo, 1835), avesse compreso che “esistono due tipi di beneficenza: la prima induce ogni individuo ad alleviare, a misura delle sue possibilità, il male che trova alla sua portata. Essa è antica come il mondo… La seconda, meno istintiva, più ragionata, contraddistinta da minor passione ma spesso più efficace, induce la società civile stessa ad occuparsi delle avversità dei suoi membri e a provvedere in modo sistematico all’attenuazione delle loro sofferenze”. Come si comprende, è qui anticipato l’argomento secondo cui la sussidiarietà postula una società civile bene organizzata se si vogliono “attenuare le sofferenze” dei cittadini.

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Ultima modifica 23/12/2016