Che bel quadro: lo mangerei!

Che vi sia una specie di contaminazione fra arte e cucina è cosa nota, così com’è noto che vi sia un rapporto ben preciso fra l’uomo ed il cibo.

Questo rapporto si fonda su basi sociali profondamente connesse alle condizioni ambientali, di vita, di abitudini, di stili della società ed è in perenne evoluzione.

Insomma si può vedere, attraverso l’opera d’arte, la storia dell’uomo sotto il profilo del cibo, dell’alimentazione, del suo accrescersi nella cultura.

Diceva D’Annunzio: ”Se la fame e la sete sono gli impulsi primitivi nell’uomo (e nella bestia) l’associare tali impulsi a “valori estetici” è un servire la causa della cultura ben più efficacemente che le noiose ed oziose dissertazioni morali e filosofiche”.

Così guardare una natura morta o una scena di vita diventa strumento non solo per l’esplorazione concreta del reale ma anche, per dire come Lévi-Strauss, un modo per accedere alla conoscenza della società del tempo. Guardiamo allora quel mangiatore solitario che è il contadino con la scodella di fagioli del Carracci, la frugalità della scena, la rozzezza dei modi e dei comportamenti ed intuiremo il modo di vivere di un’intera classe sociale o, se cerchiamo di capire la felicità dei mangiatori di ricotta del Campi (anch’esso della seconda metà del ‘500) con il loro ridere sdentato, il loro vestire raffazzonato, la bocca piena di ricotta, capiremo molte cose del bello e del buono che ottenevano i nostri avi in alcune classi sociali. 

Ma la ricchezza portava a ben altri cibi sulle tavole: lo stesso Campi (il quadro è a Brera), dipinge una cucina nella quale vi è ogni ben di Dio di volatili, oche, anatre (un ragazzino, rosso in volto per la fatica, sta tirandole il collo), galli, capponi, polli e poi pavoni spennati, beccacce, colombi, fagiani, lepri che compongono un insieme orgoglio di qualsiasi moderna macelleria! Della stessa natura ed abbondanza il quadro che ritrae la pescivendola: dallo storione all’aragosta, dalla carpa alla trota, dalla rossa triglia al lucente barbo, tutto indica una tale ricchezza di cose da far intuire la sontuosità della tavola.

In origine il termine “natura morta”, coniato verso la seconda metà del XVIII secolo, aveva un lieve senso dispregiativo, perché si contrapponeva, con i suoi oggetti inanimati, all’atmosfera della “natura vivente”. 

Da sempre la curiosità dell’uomo di conoscere i particolari della vita dei propri antenati ha trovato, nelle arti figurative, elementi di grande importanza. 

Per quanto ci riguarda innumerevoli mosaici romani ci hanno illustrato le ghiottonerie alle quali non sapevano resistere i nostri progenitori: interi pavimenti di pesci a Pompei o il mosaico nella villa del Fauno ci mostrano con chiarezza il livello di ricercatezza alla quale erano arrivati in gastronomia. Ed anche dal Medioevo abbiamo tracce evidenti di come dovesse essere la quotidianità e la festa: il Theatrum Sanitatis o le innumerevoli miniature tedesche (penso ad un macellaio di Norimberga del XIII secolo intento a tagliare un cinghiale) ci rimandano ad un’alimentazione semplice, abbondante, da crapuloni. Ma fu la pittura fiamminga, con la naturale propensione a un luminoso cromatismo e a un minuzioso realismo a tramandarci con chiarezza i cibi che arrivavano sulla tavola. Vediamo così le carni arrostite sulla tavola nel “banchetto” di Hals, la quantità incredibile di frattaglie, testa di vitello, piedini di maiale, nella “Piccola Macelleria” di Peter Aertsen, vediamo la sontuosità nel bue squartato di Rembrandt, tanto quanto vi è di abbondanza nella “Cucina ricca” di Brueghel il Vecchio 

Della tavola come spettacolo si hanno testimonianze fino alla fine del ‘700: il Bella dipinse pranzi a Venezia (memorabile quello dei Duchi del Nord del 1782) ma, prima di lui, con altri intenti artistici il Veronese dipinse le “Nozze di Cana” ed il Caravaggio ci mostra la sacralità del cibo nelle “Cena di Emmaus” .

Anche l’800 ci ha lasciato istantanee di piatti o di cibi. Ricordate il prosciutto di Manet, già in parte affettato, con la cotenna marrone di affumicatura? O il “Pasto” di Gauguin dove un’enorme ciotola campeggia su una tavola? O “Le petit dejuner” di Monet con biscotti, uova, acetiera ed oliera in tavola, un uovo alla coque? Manca però, per la quasi contemporaneità, il fascino dello scoprire: se ne sente quasi il profumo di questa bella fetta di prosciutto.

Così vediamo ancora con curiosità la “Vucciria” di Guttuso nell’accurata descrizione di carni e verdure del mercato di Palermo e poi arriviamo ai quadri di Andy Warhol, alla sua pop art che attinse i temi dal repertorio pubblicitario, con lattine di Coca Cola o minestre della Campbell’s. Ma qui è come mangiarsi un’identità, la ricerca è finita...

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Ultima modifica 23/12/2016