Verso un nuovo mondo: la primavera della robotica

L’intelligenza artificiale rivoluzionerà ogni aspetto della nostra vita quotidiana: occorre valutare attentamente le conseguenze economiche e sociali derivanti da una società con un sempre maggior livello di robotizzazione.

È una mattina d’estate del 2050, nell’era dei robot e il Signor Rossi, dopo aver gustato la colazione suggeritagli dal suo frigorifero “intelligente”, esce di casa per andare in ufficio. Le macchine, per strada, si guidano da sole. Il traffico pure: si dirige da sé. Alzando lo sguardo non può fare a meno di notare il gran numero di droni che consegnano prodotti e generi alimentari di ogni tipo. In attesa di raggiungere il posto di lavoro, legge sul suo tablet le ultime notizie, firmate da algoritmi e, giunto alla sezione finanziaria, si sofferma su un pezzo scritto da un robot che parla delle transazioni finanziarie compiute, in automatico, da altri algoritmi.

All’ingresso della fabbrica, la cui sicurezza è garantita da automi, il nostro ipotetico pronipote si trova ancora circondato dall’automazione; per la produzione, ma anche per l’organizzazione, la manutenzione, perfino l’ideazione del prodotto: a dirci cosa piace ai clienti, del resto, sono ancora algoritmi. Quel che gli resta è coordinare robot, o robot che coordinano altri robot.

Finché ne avranno bisogno. Questa ricostruzione, solo all’apparenza fantasiosa, è invece più realistica di quanto si immagini e, in un futuro non molto lontano, rappresenterà la normalità.

Indubbiamente l’intelligenza artificiale rivoluzionerà ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Le ultime novità tecnologiche sono state presentate a ICRA 2016, la più grande rassegna internazionale di robotica tenutasi a maggio a Stoccolma. Hanno attratto la curiosità le mani robotiche capaci di imparare, droni, scimmie-robot e micro-dispositivi per la chirurgia. C’è il robot che stira i vestiti dotato di una telecamera per localizzare le increspature dei tessuti, e quello che usa il cacciavite elettrico per i lavoretti di casa.

Chi ha il pollice verde può puntare invece sul robot giardiniere, che esamina minuziosamente le piante per identificare eventuali malattie o parassiti riducendo l’uso di sostanze chimiche e pesticidi. Molto utili poi i robot camerieri, ciascuno con una precisa specializzazione: c’è quello che maneggia con destrezza cucchiai e spatole, oppure quello capace di riconoscere la consistenza di un bicchiere di carta solamente osservandolo e strizzandolo delicatamente.

Al di là dello stupore che questo tipo di innovazione può suscitare, occorre valutare attentamente le conseguenze economiche e sociali derivanti da una società con un sempre maggior livello di robotizzazione.

D’altronde, alcune previsioni risultano abbastanza allarmanti. Secondo i dati presentati al World Economic Forum di Davos i Paesi occidentali stanno attraversando la quarta rivoluzione industriale: il mondo del lavoro sta radicalmente cambiando pelle e gli esperti stimano che nei prossimi 5 anni le nuove tecnologie porteranno una perdita netta di 5 milioni di posti nelle 15 economie più grandi del mondo. Questo dato è la differenza tra i 7 milioni di posti di lavoro che saranno rimpiazzati dall’elettronica, dai robot e dalla disintermediazione commerciale resa possibile dalla rete, e i 2 milioni di nuovi occupati che saranno creati per far spazio a nuove professioni. Il dato è senza dubbio preoccupante e trova conferma in un recente studio della Gartner (società leader mondiale nella consulenza strategica nel campo dell’Information Technology) secondo il quale entro il 2025 un terzo delle mansioni oggi svolte dagli esseri umani sarà portata a termine da software o robot. 

I fattori che determinano con quanta probabilità un automa potrà rimpiazzare una persona nei prossimi vent’anni esulano dalle contingenze economiche, dalla retribuzione e dalle responsabilità. Ciò che è fondamentale è il fattore umano. Saranno difficilmente sostituibili i lavori dove sono necessarie soluzioni sempre nuove (come quelli creativi), quelli in cui bisogna aiutare gli altri (l’insegnamento, per esempio) e dove bisogna avere capacità di negoziare (come quelli manageriali).

È significativo che la necessità di continui spostamenti in un ambiente vasto e imprevedibile sia un ostacolo all’automazione. Perciò sarà destinata a sopravvivere una figura come, ad esempio, la guardia forestale. Mentre la precisione dell’orologiaio può esser rimpiazzata da una macchina.

A essere a rischio, quindi, non sono più solo i lavori pesanti, ripetitivi o logoranti che verranno affidati alle macchine: per la prima volta nella storia l’elettronica sta entrando anche nel mondo dei colletti bianchi e dei cosiddetti “lavori della conoscenza”: scienziati, ricercatori, medici, professionisti. I nuovi super-computer sono oggi in grado di portare a termine numerosi processi tradizionalmente affidati agli impiegati, per esempio archiviare dei documenti o effettuare un pagamento, ma anche affiancare un architetto o un ingegnere durante la realizzazione di un progetto. 

Non tutti però concordano con gli allarmi. C’è infatti una corrente di pensiero che continua a indicare come scenario plausibile un contesto in cui le macchine e l’uomo collaborano e si integrano, aumentando le opportunità lavorative, moltiplicando efficienza e profitti, e garantendo un futuro in cui ozio, creatività e tenore di vita si coniugano al meglio. La storia dell’umanità si caratterizza per una continua evoluzione dei sistemi sociali, economici e di produzione. In certi periodi in effetti vi sono stati cambiamenti anche traumatici. Ma ciò che emerge è che attraverso difficoltà e sofferenze di vari strati sociali, spesso grazie al progresso, il mondo si è adattato ed è proseguito con le leggi base dell’economia in un contesto sociale in lenta evoluzione. Secondo la società di consulenza Deloitte nel corso degli ultimi due secoli quando una macchina rimpiazza un umano il risultato, paradossalmente, è una crescita più rapida e, col tempo, occupazione in aumento. Prendendo come esempio la storia delle rivoluzioni produttive, gli entusiasti dell’automazione sostengono che il problema si è già posto, e il capitalismo l’ha sempre risolto con la tecnologia nel ruolo di ciò che crea, piuttosto che distrugge, posti di lavoro. Gli analisti di Deloitte affermano per esempio di averlo dimostrato valutando l’evoluzione di 144 anni del mercato del lavoro in Inghilterra e Galles.

E il risultato è che, lungi dall’essere in opposizione, tecnologia e lavoro sono potenti alleati, come dimostrato dagli aumenti occupazionali registrati nella medicina, nei servizi professionali e nella consulenza. Anzi: negli ultimi 35 anni, scrivono, i settori maggiormente in crescita sono stati proprio quelli tecnologici: in pratica, le nuove tecnologie aprono nuovi mercati, e dunque nuove mansioni o anche solo nuovi compiti per quelle già esistenti, quando non nuovi interi settori dell’economia.

Certo, è facile ribattere che quello induttivo potrebbe non essere un buon metodo per predire il comportamento umano in questo contesto: se una tecnologia ha creato posti di lavoro in passato, non è detto che la prossima debba fare altrettanto. Tanto è vero che sempre più economisti, anche liberisti, chiedono l’adozione di nuove politiche economiche visto che nell’era della rivoluzione digitale il ruolo del lavoro dovrà essere ripensato. Se, in una forma o nell’altra, i redditi vanno ai robot e non più agli esseri umani, la nostra cultura cambierà e la politica dovrà adattarsi a questi cambiamenti. Che fare allora dei disoccupati e di coloro che potranno al massimo aspirare a posti di lavoro di basso livello e super precari? Per la maggior parte di loro la riqualificazione professionale non servirebbe comunque a niente, e quindi come faranno ad avere il denaro necessario alla sopravvivenza? Senza contare che meno lavoratori significa meno introiti per i bilanci statali, nonché un sistema pensionistico che difficilmente riuscirà a mantenersi in equilibrio. Una soluzione possibile verrebbe dal cosiddetto “reddito base universale”, ovvero una erogazione monetaria, a intervallo di tempo regolare, distribuita a tutti coloro dotati di cittadinanza e di residenza in grado di consentire una vita minima dignitosa, cumulabile con altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita), indipendentemente dall’attività lavorativa effettuata, dalla nazionalità, dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale ed erogata durante tutta la vita del soggetto.

In questo contesto si inserisce il dibattito sempre più attuale sul ruolo che potrebbero avere le Banche Centrali, dal momento che i bilanci pubblici non offrono più spazi di manovra e di conseguenza le politiche fiscali non possono essere attuate pienamente. Stiamo parlando dell’ “Helicopter money”, cioè far piovere soldi dalle istituzioni monetarie direttamente nei conti correnti dei cittadini. L’economia dei Paesi sviluppati infatti sta vivendo una fase di deflazione salariale a cui si aggiunge un sistema bancario penalizzato da elevati livelli di sofferenze creditizie, mentre la domanda delle famiglie e delle imprese non sta dando prova di particolare vivacità. Pertanto, se la cinghia di trasmissione “Istituti centrali-banche-famiglie/ imprese”, sul cui rilancio puntano le politiche del Quantitative Easing, non funziona, per far arrivare i soldi direttamente ai consumatori e alle società non resterebbe che questa ultima carta. Naturalmente ci sono delle controindicazioni. La prima sta nel fatto che una scelta di questo tipo è profondamente politica: a chi vanno i soldi? Detrazioni fiscali o versamenti sul conto corrente oppure tessere precaricate? Una banca centrale non è un organo democratico, quindi non può arrogarsi una scelta del genere. Vi è un problema di carattere economico: se questa procedura non si rivelasse sufficientemente efficace, almeno al primo, o ai primi tentativi, quale tattica si potrebbe utilizzare? Sinora tutti i governatori delle Banche Centrali rigettano questa idea. Del resto, fino al 2014, facevano lo stesso con l’idea di adottare una politica di tassi di riferimento negativi. Ma questo potrebbe essere il prezzo da pagare per far sopravvivere una società civile, che altrimenti lo diventerebbe sempre meno anche a causa della robotizzazione.

Rubrica: 
Ultima modifica 09/01/2017