Fiori sul tavolo... e nel piatto

Ricordate i bambini del film “Per favore, non mangiate le margherite”? Non è più attuale, come invito, perché oggi i fiori si possono mettere tranquillamente in tavola e non solo con funzioni decorative, ma anche come componenti di piatti, il più delle volte gustosi.

D’altra parte non c’è di che meravigliarsi, dato che molti fiori li mangiamo già da secoli. Pensate ai carciofi, ai cavolfiori, alle cime di rapa, ai fiori di zucca.

Chi non ha usato fiori di camomilla? I nostri vecchi si ricordano ancora del karkadè, fiore di una pianta arbustiva arrivata da noi nel 1935, allo scoppio della guerra contro l’Etiopia, quando le Nazioni Unite ci inflissero le “inique sanzioni”. Avrebbe dovuto sostituire il tè ma, per la verità, fu accolto con mediocre entusiasmo. Si può trovare ancora in qualche drogheria specializzata.

Comune è l’uso dello zafferano, ricavato dai rossi stigmi di un fiore simile al croco ed altrettanto quotidiano è l’uso del fiore del cappero, raccolto allo stato di bocciolo e poi messo sotto sale o aceto, o del girasole, vero cardine portante nel mondo dell’alimentazione.

E già nella nostra cucina qualche altro fiore meno comune ritorna a tavola con frequenza, ovviamente, annuale: ad esempio i fiori d’acacia.

Fritti in pastella, zuccherata o meno, accompagnano il ritorno della primavera. Attenti però a non usare quelli gialli del maggiociondolo, perché sono tossici.

La cucina romana utilizzava i fiori in gran quantità: Apicio fornisce una ricetta di cervella ai petali di rose e un’altra di polpette con fiori di maggiorana. Inoltre veniva fatta una salsa con i fiori di cartamo, che ancor oggi viene utilizzato, con il nome di zafferano bastardo, fra gli ingredienti del brodetto di pesce marchigiano.

Abitudinaria era anche la pratica di aromatizzare i vini con rose e violette. E sia nel Medioevo che nel Rinascimento l’uso di fiori in gastronomia fu abbastanza generalizzato. Ne parla il Savonarola, medico padovano, alla fine del ‘300, dichiarando che i garofani fanno “..i cibi al gusto più dilectievole e saporido” e il Maestro Martino da Como ci dà la ricetta di una torta di fiori ed una di “frictelle de fior de sambuco”. Nel pieno del ‘500 Costanzo Felici ci fornisce una ricetta attualissima per un’insalata nella quale vi si “misticano” verdure di ogni tipo con “viole zoche o mamole”. Si affievolì, poi, l’uso dei fiori in cucina, rimanendo quasi esclusivamente prerogativa delle cucine dell’Estremo Oriente ove ci si imbatte in piatti che utilizzano petali di crisantemo o di magnolia, fiori di gelsomino e di ibisco, gigli gialli per insaporire salse.

Ora questo naturalismo in cucina sta tornando anche da noi e non è difficile trovare in questo periodo articoli sulla stampa gastronomica che forniscono ricette nelle quali l’uso di fiori è determinante. La nostra

Accademica di Napoli – Capri, Lejla Mancusi Sorrentino, ha, di recente, pubblicato un volume che è una vera summa sull’argomento, ove alla parte storica, ha affiancato una serie di invitanti ricette divise per fiore. E la scienza, da parte sua, conferma che i fiori contengono principi attivi la cui efficacia è confermata (basta, in effetti, riflettere sul fatto che tutta la farmacopea dell’antichità, fin all’ingresso della chimica, si affidava ai vegetali). Fiori che non servono solo per ornare i piatti di portata, stuzzicando l’occhio più che il palato, ma che entrano come ingredienti nelle ricette e che dal punto di vista nutrizionale determinano, in genere, una cucina sana e leggera date le loro proprietà antinfiammatorie, diuretiche, toniche, emollienti e astringenti.

Le rose, ad esempio, sono astringenti e con molta vitamina C. I fiori d’arancio possiedono qualità antinfiammatorie e il gelsomino calma la tachicardia.

Il garofano è stimolante dell’appetito e la margherita è antispasmodica e astringente. La funzione anti tosse e diuretica rende ancor più bella la viola del pensiero.

Come sempre, non tutto è da mangiare indiscriminatamente: la camelia ha fiori tossici, come il ciclamino.

Non toccate mai l’oleandro perché è molto velenoso e lo sono anche l’ortensia e il tulipano. Il sambuco è velenoso se consumato acerbo: diviene commestibile a maturazione avvenuta.

Nel 1647 il Vasselli nel suo “Maestro dei Conviti” scrive: “le ombrelle dei fiori di sambuco vogliono essere colte nel mezzogiorno, in un panno bianco e scuotendole caderanno delicatamente i fiori”. Li mangiava poi in insalata. Proviamo anche noi a cucinare con i fiori? Alcuni accorgimenti sono necessari: è consigliabile aggiungere i fiori alla fine della cottura e nelle insalate all’ultimo momento, giacché il calore o il lungo contatto con l’aceto fa cambiare il colore ai petali.

Potremo dire, senza tema di essere smentiti, “Che fiore di piatto mi hai dato”. È un bel complimento per il cuoco, non credete?

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Ultima modifica 09/01/2017