Messner, 70 anni in vetta

Dopo i quattordici 8000, i Seven Summits e oltre 100 spedizioni, superati i 70 anni il più famoso alpinista non smette di guardare in alto.

Lo conosciamo come uno dei più forti alpinisti mai esistiti, il primo uomo ad aver conquistato tutte le cime più alte della Terra, l’esploratore che ha attraversato a piedi le zone più remote, colui che in un impresa difficile ha perso il fratello compagno di cordata e si è sentito accusare di essere responsabile dell’incidente. Non ha avuto paura neanche di rischiare il ridicolo dichiarando l’incontro con lo Yeti e svelando il suo mistero, salvo poi confessare oggi che il suo amico Tenzin Gyatso, il Dalai Lama, lo chiama scherzosamente proprio Yeti.

Reinhold Messner non si ferma e inaugura il suo sesto museo, ultima tappa (per ora) del percorso che traccia la sua eredità spirituale. Dopo Firmian, Solda, Juval, Monte Rite e Brunico, la struttura sorge, ma è più corretto dire “si interra”, sulla vetta di Plan de Corones. Progettato dall’archistar Zaha Hadid, per questo museo Messner ha scelto di non contaminare il panorama con una nuova costruzione ma di creare qualcosa che scendesse nella montagna come le radici di una pianta. Un ingresso e tre finestroni alla fine delle sinuose gallerie. L’affaccio non è casuale. Fronteggia altrettante pareti dolomitiche, luoghi che hanno fatto la storia dell’alpinismo.

Quest’ultima tappa è proprio un omaggio all’alpinismo tradizionale, quello di Bonatti e di Cassin. Parlandone, Reinhold si confessa rivelando, dietro l’alpinista, anche l’antropologo, il geologo, il collezionista, il filosofo, il contadino, l’ecologista, l’imprenditore ma innanzitutto l’uomo che dai suoi fallimenti ha imparato che la montagna e l’uomo possono convivere solo in una posizione di rispetto dell’uomo verso la montagna.

Reinhold, a 70 anni ancora montagne e nessun rifugio in vista?

Volevo salire molto in alto per poter vedere profondamente in me stesso. Per 40 anni ho scalato le pareti più difficili, poi le cime più alte del mondo, quindi ho percorso lunghe camminate. Alla fine della mia vita ho fatto posto per la mia eredità, 6 musei che non era facile realizzare e sono diventati il mio quindicesimo ottomila, l’unico accessibile a tutti.

Hai cominciato dal castello di Firmian, cos’era questo posto prima di Messner?

Quando sono venuto per la prima volta a Firmian era un posto disperato, una porcheria. Abbiamo sgombrato 80 camion pieni di immondizia. Qualcuno sosteneva che questo sarebbe diventato la Disneyland di Messner. Ho dovuto lottare per poter entrare qui e mettere in pratica una mia visione: quella di rendere questa roccia la montagna incantata. La collina era la collina che nessuno veniva a vedere, adesso la visitano 100.000 persone all’anno.

Perché?

Perché ho esposto non solo la mia collezione e la mia eredità, ma anche qualche spirito. L’uomo è diventato uomo, dice la Bibbia, perché Dio ha dato una dimensione divina all’uomo. E così ho tentato. Io non sono Dio, non ho la capacità di fare sacra la montagna.

Cosa succede quando l’uomo e la montagna si incontrano?

In ognuno di noi succede qualcosa di diverso. Io in questo caso cito William Blake: «Succedono delle grandi cose se l’uomo e la montagna si incontrano».

Dove succedono? In montagna sicuramente no. Al massimo faccio un graffio con la mia picozza. Poi il vento porta via questo graffio e 10 giorni dopo non c’è più nulla. Ma dentro di noi succede qualche cosa. Il rispetto della montagna cresce quando noi ci incontriamo con la montagna. L’orrore, la paura, anche forse essere tornati sani e salvi da una salita, tutto questo scatena in noi emozioni.

Quali strumenti usi per descrivere un’emozione?

Uso l’arte, uso la filosofia per raccontare che cosa succede in noi. Però lascio aperta la risposta. Sono anche sicuro che i nostri visitatori vedendo i musei hanno emozioni totalmente differenti, diverse a seconda del posto.

Il mio sogno è che la gente, entrando in questi luoghi, in silenzio, in tranquillità, in lentezza, esca da un mondo aggressivo, un mondo della città ad alta voce, un mondo totalmente diverso come in realtà è anche la montagna.

Perché gli occhi dell’alpinista hanno cercato quelli dei pittori delle montagne e ti sei messo a collezionare?

Ho cercato a lungo un modo di mettere le montagne in un museo. La fotografia blocca un attimo della montagna, però è il pittore che la concentra davvero, altrimenti non è un bravo pittore.

Hai parlato di fallimento: l’uomo di città fallisce quando vede la montagna solo come la periferia della città?

Quando l’uomo vede la montagna da cittadino, venendo la prima volta dalla città, vede una cartolina postale. La montagna la vedo solo se salgo e sento nei muscoli, nel fiato, nello sguardo, la sua immensità.

C’è dunque una spaccatura tra gente di montagna e gente di città?

Sì, lo racconto a Brunico. Il museo si chiama Ripa, RI come cima, Pa come popolo in lingua tibetana. Così è il popolo della montagna, sono tanti popoli della montagna.

Sul Ripa ho provato a raccontare una ventina di popoli delle montagne di tutti i continenti per far vedere come vivono. Voglio evidenziare che la cultura della montagna è una cultura a sè stante che è diversa dalla cultura della città. Le culture delle montagne si differenziano tra loro ma hanno molte similitudini.

Però le Alpi sono assediate da 400 milioni di persone che ci vivono attorno… I problemi che abbiamo con le Alpi sono parecchi. Molti dalla città vorrebbero usare le Alpi soltanto per dormire o per trascorrerci il fine settimana. Io mi batto per la realtà. Abbiamo una responsabilità, abbiamo il diritto di tutelare e anche sfruttare le Alpi dove l’uomo ha sempre lavorato, fino a 2400 metri. Significa che se il turismo ci porta i mezzi per sopravvivere, va incentivato.

L’allacciamento tra turismo e agricoltura è la base per il sostentamento, però oltre una certa quota l’uomo non deve costruire infrastrutture.

Un tempo l’alta montagna era da evitare o attraversare velocemente, quando ha smesso di fare paura?

Con l’inizio delle fabbriche è nato l’alpinismo e così lentamente la montagna ha perso questa dimensione paurosa. L’uomo intelligentemente non andava sulle montagne nel 1500. Qualcuno si è avvicinato. Con l’illuminismo e il romanticismo la montagna diventava qualcosa di sublime e lentamente, gli inglesi, che avevano le prime fabbriche, per avere un’attività legata alla natura, per uscire dalla trappola tecnologica sono poi andati a conquistare le Alpi.

Come hai scelto i luoghi dei tuoi musei?

Contestualizzando i temi. Ad esempio il ghiaccio è il tema di Solda, un tema molto importante riferendosi alla wilderness. Così ho costruito il museo dove il ghiaccio è toccabile. La stessa cosa ho fatto per il Rite dalla cui vetta si vedono 1000 cime col binocolo. Juval è ideale per le montagne sacre e probabilmente Ötzi (la mummia del Similaun, ndr ) aveva lì il suo luogo di culto. Poi i popoli montanari trovano posto a Brunico, ideale perché circondato dai masi di montagna.

A Plan Corones le tre grandi finestre sono affacciate su pareti importanti delle Dolomiti.

Oltre che per lo sport, la montagna è uno spazio per la religione?

Io rispetto tutte le religioni, però sono conscio del fatto che tutti gli dei su questa terra sono invenzioni umane, nate della fantasia delle persone. L’uomo è stato costretto a farlo per sopportare la difficoltà di vivere. E lo farà anche nel futuro.

L’uomo del terzo millennio ha ancora bisogno di miti?

L’uomo del terzo millennio avrà le stesse domande di quelli dei tempi romani o anche prima. Ci chiediamo tutti da dove veniamo e dove finiamo. Da qui nascono le religioni e le religioni tentano di dare una risposta.

In questi dubbi, uomo e natura in che rapporto stanno?

Affronto questo tema a Juval, dove, prima di fare un museo, ho fatto casa mia. Io posso, volendo, ritirarmi in questo maso con la mia famiglia e sopravvivere.

Poi ho imparato che non possiamo mangiare tutto quello che si produce, 50 maiali all’anno, 30 pecore e così via. Allora ho fatto un ristorante dove si lavora, si valorizza e si vende sul piatto. Così tutta la catena di valorizzazione è in una mano sola e il contadino può sopravvivere e garantire nello stesso momento la tutela di questo paesaggio. Ho creato un esempio del chilometro zero per far sopravvivere i masi in montagna.

Cosa pensi di aver cambiato e come vorresti essere ricordato?

Fuori dal castello ho fatto un Chorten (la costruzione Tibetana che ospita le ceneri dei monaci, ndr ) dove rimarranno i miei resti, mi allaccio ancora una volta alla cultura tibetana, che mi è molto vicina. Ma non ho una visione di quello che deve rimanere di me perché in realtà non rimane niente di noi. Prima o poi sparisce perfino il ricordo.

Ti davano del pazzo, quello che voleva salire gli Ottomila senza aiuti artificiali: dove è finito l’uomo per iniziare la leggenda?

Se io non fossi una persona del tutto normale non avrei potuto fare esperienze e non avrei potuto neanche avere l’esperienza o la capacità di fare questo museo. Il museo è basato sul fatto che io ho vissuto non tutte, ma quasi tutte, le paure come gli altri.

Paure anche di arrampicare?

Chi ha un intelletto molto forte può fare un’unica cosa: non arrampicare, allora non perde la vita in montagna. Se azzardo è chiaro che l’intelletto mi aiuta a prepararmi bene, a portare tutto quello che serve, però in parete devo poi seguire più l’istinto che l’intelletto, perché l’istinto è molto più profondo in me che non l’intelletto. Io non ho il coraggio di contraddire i miei istinti.

Neanche quando la montagna chiede una vita?

Non c’è risposta. Io non posso difendere l’alpinismo se penso a tutti i morti che ha provocato, se penso alle donne, ai figli che avevano, alle madri, ai padri.

La mia più grande sconfitta in montagna è stata la tragedia sul Nanga Parbat (nella spedizione del 1970 morì suo fratello Günther mentre scendevano a valle, ndr ) era la più grande scalata. La più difficile che abbia mai fatto, con la discesa su un versante diverso dalla salita, è la tragedia più brutta che ho vissuto. E così è anche un fallimento, però è un fatto.

Io devo riportarlo come un fatto e non devo divulgarlo sostenendo di difendere l’alpinismo. Però ho fatto a Firmian una specie di cappella per i morti, anche per ricordare che fanno parte della storia della montagna.

Faccio un po’ di nomi, non tutti. Per me è molto importante questa piccola stanza. È lì, è parte di un percorso, una tappa della vita. Così deve essere.

Senza un rischio, la montagna diventa qualcos’altro, diventa una tappa e non una montagna.

Parli del tuo lavoro sui musei come di un 15° Ottomila, è stato duro da conquistare?

Non parlerei di conquista, l’ho fatto realtà. Ho realizzato i sogni che avevo nella testa. Io non conquisto montagne e non conquisto neanche il mondo culturale.

Però ho sognato a lungo. Ho sognato molti più anni questi musei che non gli Ottomila. Ci sono cose da correggere ma ho il tempo per farlo.

Non è finita dunque.

Gli occhi continuano a bucare quel folto pelo indistinto tra barba e capelli che lo rende inconfondibile.

Si congeda. Lo guardo avviarsi verso il suo ufficio ai piedi della torre più alta di Firmian. Lo fisso. Mi sono fatto pungere da quelle pupille e l’effetto si fa sentire. Non riesco a non pensare cosa ci è passato, dentro quegli occhi. Mi domando se davvero bastano solo 70 anni per contenere tanto o se in realtà non ho appena intervistato uno spirito di molti secoli.

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Ultima modifica 09/01/2017