La culla della nostra cucina

A un recente convegno dell’Accademia Italiana della Cucina il Presidente ha parlato, a conclusione dei lavori della Delegazione, di come l’Accademia stessa debba riposizionarsi nei riguardi del passato, dell’oggi e del prossimo futuro: a partire proprio dall’aspetto storico, così da poter definire quale possa essere considerato come il momento costitutivo di una “cucina italiana” propriamente detta, dotata di una sua coerenza intrinseca e tuttora viva e presente sulle nostre tavole.

Un momento che, quasi certamente, può essere fatto coincidere con l’Unità d’Italia: è in questo periodo, infatti, che inizia a farsi largo il concetto (peraltro molto dibattuto) di unitarietà della cucina, riflesso a sua volta di una serie di variabili di tipo sociale, economico e politico. A queste si aggiungono i profondi cambiamenti derivanti dal progressivo radicarsi del progresso tecnico anche nell’ambito della produzione alimentare: un processo, questo, che proprio nel periodo storico intorno al 1860 ha avviato il nostro Paese verso un modello di industrializzazione sempre più evidente, affiancando la tradizionale primaria attività agricola fino a portare al raggiungimento di uno straordinario unicum come quello costituito dalla cucina italiana.

Premesso questo, bisogna comunque considerare che la storia della nostra cucina nazionale parte da ben più lontano e che assomma in sé una complessa serie di elementi e di influenze che risalgono a secoli passati. Esistono diverse teorie che cercano

di approfondire il concetto di identità della nostra cucina. C’è chi la nega, chi la riconosce solo nella struttura del pranzo, uguale in tutta Italia, chi parla di una identità di cucina “trasversale” perché si ragiona, nelle cucine di tutta Italia, sulla base di schemi ricorrenti, con tutte le varianti che questo Bel Paese ci concede, data l’ampiezza della biodiversità del suo territorio.

Massimo Montanari, nel suo “L’identità italiana in cucina”, sostiene ad esempio che una cucina italiana intesa come modello unitario, codificato in regole precise, non è mai esistita e non esiste tuttora. Se però la pensiamo come “rete” di saperi e di pratiche provenienti da città e regioni diverse, è evidente per contro che uno stile culinario “italiano” esiste fin dal Medioevo.

A Firenze, con l’arrivo della “Capitale” imperversava, da un lato, la cucina francese che si praticava nelle case dei nobili, tanto che la cucina del marchese Piccolellis era di reputazione vatelliana da Vatel, il cuoco del Principe di Condè suicida per il mancato arrivo di pesce in un pranzo per il Re Sole.

Ma un esercito di funzionari statali, prima che la breccia di Porta Pia portasse la Capitale a Roma, vissero in Toscana e, con lentezza ma anche con costanza, si avvicinarono alla buona cucina paesana, virando perfino, sia pure nell’arco di lungo tempo, il linguaggio all’inizio solo francese, con un italiano ben più vicino alla realtà popolare.

E se è vero che la credenza era diventata buffet è anche vero che poco alla volta il potage ridiventò minestrina e i foies et cretes de volaille en fricassée ridivennero il toscanissimo cibreo.

Nel 1892 arrivò Pellegrino Artusi che scrisse quel libro che si ritiene abbia fatto più per l’unità d’Italia di quanto non fecero i moti risorgimentali: parliamo

della “Scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”, libro che si ergeva contro l’indigeribile stile culinario delle masse e dei “diseredati dalla fortuna” da un lato e il pretenzioso e francesizzante modo di mangiare della nobiltà dall’altro. Da qui si originò e si codificò il modo di mangiare della famiglia borghese italiana.

Con questo libro l’Artusi riuscì a rimettere in moto una specie di dialogo gastronomico fra le città d’Italia, anche se, a dire il vero, la sua competenza sulla cucina centro-meridionale d’Italia si basava quasi esclusivamente sulla ristorazione che lui aveva praticato nei suoi viaggi. Non sempre, del resto, era affascinato dalle altre cucine, se è vero che, parlando dei maccheroni napoletani, arriva a dire che sono particolarmente graditi da chi “nel sugo di pomodoro ci nuoterebbe dentro”. Dava, l’Artusi, un connotato borghese a una cucina che, come ha scritto Paolo Petroni nella presentazione di un testo del 1927 sulla cucina toscana, appariva in netto contrasto con la cucina povera delle trattorie, per l’uso del burro, di molte uova, di molta vitella magra e molto pane bianco raffinato: il tutto in dosi generose di ingredienti costosi.

L’altro grande collante della cucina italiana fu il concetto della famiglia durante il ventennio fascista: il focolare, la famiglia motore della società, il rito di una cucina portatrice di una riforma radicale della gastronomia nazionale. Furono decenni nei quali la vigoria, la salute, la baldanza, tutto ciò che era gagliardia fisica, apparivano indispensabili per essere all’interno degli indirizzi di regime e la cucina ne era, di conseguenza, la prima fautrice.

È, in definitiva, la storia di un popolo che onora in tavola il proprio passato, il proprio divenire, sempre fedele alle basi di una comunità che ha fatto la storia del mondo.

Ce ne interesseremo in futuro, facendo un viaggio per Regioni e cercando nei piatti che la identificano, una storia che onora la nostra cucina, universalmente qualificata fra le più interessanti del mondo.

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Ultima modifica 06/03/2017