LE CROCEROSSINE tra emancipazione e propaganda

N ella primavera del 1915, quando l’Italia iniziò la sua offensiva contro gli austriaci, il presidente della Croce Rossa Italiana (CRI), Gian Giacomo Cavazzi della Somaglia, era pronto ad adeguarne gli interventi umanitari ai protocolli già posti in atto da alcuni mesi nei paesi belligeranti. Sia le potenze dell’Intesa che gli Imperi Centrali avevano convenuto sull’opportunità di attribuire al Comitato Internazionale della C.R (Ircc), di base nella neutrale Svizzera, un ruolo di coordinamento e di raccolta delle informazioni in merito al trattamento dei feriti e dei prigionieri, ai sensi della Convenzione di Ginevra.

Tuttavia il 23 maggio il governo aveva provveduto alla “militarizzazione” del personale di ruolo della CRI, sia maschile che femminile, e ciò ridusse i margini di manovra dell’associazione, che comprendeva anche un numero - crescente - di iscritti e sostenitori nei numerosi Comitati locali, i quali andavano promuovendo raccolte di fondi, indumenti e viveri e mettevano a disposizione della CRI, un po’ in tutta Italia, ville che avrebbero potuto diventare piccoli ospedali o convalescenziari.

In luglio grazie ai buoni uffici dell’ambasciatore degli Stati Uniti, Thomas N. Page, il ministro degli Esteri Giorgio Sydney Sonnino incontrò i rappresentanti della War Relief Commission, ufficio che proponeva interventi concreti per alleviare il peso del conflitto europeo sulla popolazione. Sonnino si mostrò restio a collaborare: al governo ancora “bruciava” il modo in cui la stampa USA aveva criticato la gestione dei soccorsi ai terremotati di Messina, e diffidava della riservatezza della WRC in merito a eventuali dati sensibili sui movimenti delle truppe. Gli americani ne presero atto, e per

oltre un anno esclusero l’Italia dai piani di aiuto.

Sonnino, il quale aveva fatto inserire nel Patto segreto di Londra una clausola che impegnava le potenze dell’Intesa a non riconoscere alla Santa Sede alcun ruolo diplomatico per la risoluzione del conflitto, decise di non tenere aggiornato l’Ircc in merito agli scambi di prigionieri tra Italia e Austria, che pure comportavano l’internamento temporaneo dei prigionieri in campi svizzeri. I convogli ferroviari giungevano a Chiasso, dove gli internati venivano avviati agli ospedali di Como e dopo le opportune visite venivano “smistati” ai luoghi di cura specializzati nelle diverse patologie: malattie infettive, operazioni chirurgiche, protesi, cure psichiatriche. Visite mediche accurate erano di rigore anche per tutti i rimpatriati via mare, in particolare in arrivo ai porti di Brindisi e Taranto; a esse si accompagnava un approfondito interrogatorio, perché era costante il timore che il nemico intendesse introdurre spie e/o “disfattisti”.

Sonnino non aveva invece scrupoli sull’impiego delle volontarie della CRI a ridosso delle prime linee, forse anche per l’influsso della sorella Emmelina, una delle protagoniste dei salotti romani; esperta di teosofia ma anche sostenitrice di circoli femminili, secondo cui la partecipazione attiva allo sforzo bellico poteva e doveva essere un’occasione di redenzione sociale per le donne. La prima giornalista italiana inviata dal quotidiano romano Il Messaggero al fronte, Ester Danesi, divenne rapidamente un simbolo concreto dell’emancipazione femminile da organizzazioni quali il Consiglio Nazionale Donne Italiane, una struttura di matrice liberale sorta nel 1903.

Durante l’estate del 1915 la duchessa Elena d’Aosta, Ispettrice Generale delle ausiliarie della CRI, aveva visitato i primi ospedali approntati nella zona di Udine, sede del Comando Supremo di Luigi Cadorna. La base operativa delle crocerossine era il convitto-collegio Toppo Wassermann, preso in consegna già l’11 giugno dall’Ispettrice Costanza di Colloredo, coadiuvata dalla figlia Paola, poco più che ventenne.

L’anno prima, nel pieno delle campagne interventiste, 317 dame della migliore società friulana avevano chiesto di poter svolgere un corso per infermiere, che venne attivato solo dall’autunno 1915. Le iscritte s’erano

ridotte a 88, e di queste solo 22 ottennero la qualifica professionale. Elena d’Aosta aveva quale modello di riferimento l’ospedale Principessa Jolanda, aperto nel 1912 a Milano presso l’ex convento domenicano di S. Maria delle Grazie: una piccola struttura sorta grazie ai contributi raccolti da Rosa Curioni e Sita Camperio; era un presidio chirurgico con annessi corsi per infermiere, affidati alla matron Helen Hamilton, discepola di Florence Nightingale.

Sarebbe stato difficile riprodurre l’esperienza milanese senza un adeguato sostegno finanziario; la CRI al momento si sosteneva prevalentemente grazie alle quote associative, a offerte straordinarie e lasciti; solo nel 1917 una legge le consentì di ritirare e rivendere arredi dismessi da uffici pubblici, e persino i faldoni cartacei d’intere sezioni d’archivio destinate al macero. Miglior successo ebbero, sin dal 1915, le emissioni di francobolli con un piccolo sovrapprezzo destinato alla CRI: quasi un antenato degli attuali “sms solidali”.

Tuttavia il ministro delle Poste, Vincenzo Riccio, si trovò ai ferri corti con Sonnino quando, in ossequio ad accordi internazionali precedenti il conflitto, decise di mantenere in vigore le tariffe agevolate previste per la spedizione ai prigionieri e agli internati dei pacchi contenenti generi alimentari. Egli temeva sia che gli austriaci s’impossessassero delle cibarie, sia che la speranza d’un trattamento “dignitoso” inducesse qualche reparto al fronte a darsi prigioniero, pur di sfuggire alla durissime condizioni di vita nelle trincee.

Onde superare le perplessità degli Esteri, la supervisione del “servizio pacchi” venne affidata dal Cavazzi al vice-presidente della CRI sen. Giuseppe Frascara, politicamente molto vicino a Sonnino. La spedizione dei pacchi proseguì per tutto il corso del conflitto; secondo i dati ufficiali ne furono inviati circa 18 milioni.

 

Il caso dell’Università Castrense

Data la scarsa autonomia finanziaria della CRI, il progetto di formare una élite di infermiere fu ritenuto poco realistico da uno dei dirigenti più noti, il prof. Giuseppe Tusini, colonnello medico. Egli aveva individuato nel territorio di San Giorgio di Nogaro, ben servito da strade e ferrovie, una location idonea per strutture ospedaliere specialistiche, destinate sia alle operazioni chirurgiche complesse che alla degenza dei malati cronici o intrasportabili. Secondo lui le crocerossine avrebbero dovuto svolgere in primo luogo il compito loro affidato dalla legge, e cioè fungere da ausiliarie nell’attività ordinaria dei medici e dei paramedici, e non cercare di rimpiazzarli. La sua esperienza presso il carcere militare di Palmanova lo induceva a non sottovalutare i pericoli connessi all’impiego di personale femminile.

Dispose che alle ausiliarie non fossero affidati reparti interi, ma che si distribuissero in piccoli gruppi, con incarichi di supporto al personale della sanità militare.

In autunno Tusini convinse lo Stato Maggiore a sostenere il progetto d’una scuola di specializzazione in medicina e chirurgia in grado di fornire nel più breve tempo possibile nuovi operatori da destinare alle strutture sanitarie a ridosso del fronte.

Nel febbraio 1916 venne inaugurata ufficialmente a San Giorgio, alla presenza anche della duchessa Elena d’Aosta, l’Università Castrense: con una disposizione governativa, venne offerta agli studenti universitari del V e VI anno la possibilità di completare il corso di laurea in medicina tramite la frequenza alle lezioni tenute da un gruppo di ufficiali medici presso le strutture ospedaliere friulane. Gli iscritti erano 366, ben 261 dei quali “fuori corso”. Questo dato indusse l’antica facoltà di medicina di Padova a sollevare dubbi sul valore scientifico del corso, che tra l’altro non prevedeva l’inquadramento automatico dei “laureati” nell’esercito, e

quindi (almeno in teoria) avrebbe aperto loro le porte del legittimo libero esercizio della professione medica.

Questi argomenti ebbero un certo peso sul nuovo ministro della Guerra, Paolo Morrone, entrato in carica dall’aprile 1916: poche settimane dopo fu annunciato agli studenti la conclusione del corso dal 24 maggio, primo anniversario dell’ingresso in guerra.

In quel periodo la CRI aveva conosciuto un significativo aumento degli iscritti; le infermiere volontarie in servizio nel regio esercito erano passate da quattromila a seimila.

Sulla questione della Castrense la CRI decise di affiancare a Tusini un vice-presidente incaricato dell’organizzazione degli ospedali in zona di guerra; il momento era delicato, per il passaggio dal governo Salandra a quello d’unità nazionale affidato a Paolo Boselli. In esso Sonnino aveva mantenuto gli Esteri mentre Riccio era stato sostituito alle Poste.

Il nuovo plenipotenziario della CRI era l’avv. Giovanni Ciraolo, ex deputato radicale e massone.

A San Giorgio Tusini aveva proseguito nella formazione di nuovi medici, anche nell’attesa d’un via libera ufficiale; il 26 novembre 1916, grazie alla mediazione di Ciraolo, un Decreto Luogotenenziale autorizzò l’inizio d’un secondo corso universitario nelle strutture di San Giorgio, ma fornì la qualifica di Università Castrense anche a quella di Padova, data la sua prossimità alle zone di guerra. Questo ateneo era anzi autorizzato a raccogliere iscrizioni di studenti ch’erano già sotto le armi, qualunque fossero la loro arma e il grado. Pochi mesi dopo gli studenti di San Giorgio (821 frequentanti su 822 iscritti, come orgogliosamente dichiarava Tusini) vennero iscritti d’ufficio all’Università di Bologna, mentre il corso friulano venne fatto concludere nell’estate 1917.

 

I nuovi rapporti con gli Stati Uniti

Dal 23 novembre 1916 il governo Boselli istituì un ministero per la Propaganda, senza tuttavia dotarlo di fondi paragonabili a quelli delle altre potenze belligeranti.

Gli USA, per le loro risorse finanziarie, prima ancora che militari, erano considerati un obiettivo primario dal nuovo ministro, Vittorio Scialoja; egli non poté fare a meno di affidare gli interventi all’ambasciatore a Washington, Vincenzo Macchi di Cellere, il quale non aveva alcuna intenzione di porsi in contrasto con la linea del ministro degli Esteri, e si limitò ad organizzare, nelle città con una forte presenza di emigranti italiani, cicli di conferenze per contrastare l’opinione diffusa che l’Italia fosse entrata in guerra non per sconfiggere “i barbari unni” ma per impossessarsi dell’Adriatico.

Nel gennaio del 1917 la decisione del presidente Thomas Woodrow Wilson di combattere “al fianco” dell’Intesa si accompagnò a un grande sforzo della American Red Cross, diretta dal vulcanico Ernest P. Bicknell, il quale riuscì a ottenere consistenti contributi dai Rockefeller. Nel luglio 1917 venne costituita la Red Cross Italian Commission, affidata al braccio destro di Bicknell, Victor H. Heiser, un ex dirigente della Standard Oil. Grazie ai buoni uffici di Francesco Saverio Nitti, politico ben introdotto negli ambienti finanziari americani, che aveva fatto parte a febbraio d’una missione diplomatica a Washington, ad Heiser e ai suoi collaboratori fu consentito non solo di studiare da vicino gli effetti dei recenti provvedimenti governativi in favore dei soldati, adottati con il plauso e il supporto tecnico della CRI, tra cui l’Opera Nazionale Invalidi (25 marzo) e l’attribuzione d’una pensione ai militari che avevano contratto la tubercolosi (20 maggio), ma anche di rendersi conto personalmente del livello di assistenza fornito dalla CRI. Heiser fu particolarmente colpito dal gran numero di posti letto resi disponibili per i soldati negli ospedali italiani, in gran parte affidati alle crocerossine (ben un milione di letti, per circa quattro milioni di soldati mobilitati), e dalla rapidità ed efficienza con la quale i camion-ambulanza (spesso adibiti anche al trasporto di viveri e munizioni) collegavano le impervie zone di trincea con le retrovie nel fondovalle, dove sorgevano sale operatorie attrezzate.

A seguito della sua relazione Bicknell approvò lo stanziamento d’un contributo di 250 mila lire e l’acquisto di quattro nuove ambulanze.

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Ultima modifica 06/03/2017