COMO e le architetture di Mantero

Dopo molti anni di semi-abbandono, l’ex cineteatro Politeama, uno degli edifici storici più noti (e rimpianti) del capoluogo lariano sembra aver trovato una destinazione di prestigio: secondo Ugo di Tullio, il docente dell’Università di Pisa incaricato del progetto dal Comune di Como, diverrà un edificio polifunzionale vocato alla cinematografia, nelle sue diverse declinazioni. Per comprendere l’origine del Politeama bisogna far riferimento all’estate del 1899, quando Como celebrò il centenario dell’invenzione della pila da parte di Alessandro Volta con una Esposizione che intendeva rendere omaggio anche alle più recenti applicazioni dell’energia elettrica, dall’illuminazione all’ascensore ai trasporti urbani. L’organizzazione - fatto raro in un’epoca di forti contrapposizioni ideologiche - coinvolse sia esponenti della borghesia imprenditoriale di matrice laico-repubblicana, sia il mondo cattolico-moderato. Così, ad esempio, al Teatro Sociale (i cui palchi si tramandavano dal 1813 tra le famiglie della borghesia cittadina) vi fu la prima assoluta d’una “marcetta”, Scossa Elettrica, del massone Giacomo Puccini, ma anche dell’oratorio Il Natale del Redentore di mons. Lorenzo Perosi. Un incendio l’8 luglio distrusse in poche ore il grande padiglione ligneo; gli organizzatori indissero una raccolta di fondi e accettarono di buon grado anche il contributo del re Umberto I, inviso a molti lombardi per aver conferito motu proprio un’alta onorificenza al gen. Fiorenzo Bava Beccaris, responsabile della sanguinosa repressione delle proteste popolari del maggio 1898. Ma in quel momento ciò che contava era la riapertura, che avvenne un mese dopo, in tempo per salvare l’Esposizione.

Tra le migliaia di visitatori c’era un giovane rappresentante di commercio originario di Novi Ligure, Riccardo Mantero, giunto in città un paio d’anni prima in cerca di fortuna: suo padre, Carlo, gestiva una piccola maglieria, ma doveva mantenere ben otto figli.

Nel 1902 Mantero, grazie alla fiducia accordatagli da Luigi Cattaneo, uno dei tre titolari della grande tessitura serica di cui egli curava le vendite sulla piazza di Milano, fu in grado di mettersi in proprio, affittando il terzo piano d’un palazzo di via Mentana. Egli puntò sulla commercializzazione di tessuti di seta tinti e stampati con fantasie il più possibile originali, destinati a clienti che aborrivano l’idea dei prodotti seriali.

Mantero offriva a sartorie di lusso e atelier una scelta più ampia rispetto alla concorrenza, grazie alla sapiente compravendita di pezze la cui produzione in grandi quantità avrebbe tenuto impegnati troppo a lungo i telai e i relativi addetti, i famosi artigiani ultra-specializzati comaschi in grado di seguire a colpo d’occhio il progressivo svolgersi, in cadenza, di decine di rocchetti di filo di seta e il contestuale formarsi del tessuto.

Data anche la favorevole congiuntura e il successo dell’export comasco, che all’epoca stava finalmente prendendosi una rivincita su Lione, Mantero fu ben presto in grado di convincere l’intera famiglia a trasferirsi in città.

Iniziative culturali per il popolo

Nell’estate del 1903 l’esempio dei corsi di formazione professionale avviati con successo a Milano dall’Umanitaria venne ripreso a Como da un gruppo di maestri elementari ed esponenti della media borghesia professionale coordinati dall’ing. Enrico Musa, milanese, co-titolare della tessitura serica Musa Marzorati & C., con sede a Gerenzano. Era stato lui, quattro anni prima, a coordinare le attività del comitato promotore dell’Esposizione, in stretta collaborazione con il direttore della Camera di Commercio, l’avv. Guido Casartelli, di Torno; fu ancora Musa a introdurre anche a Como il dibattito sulla costruzione di case operaie: un tema caro al direttore del quotidiano Il Secolo Carlo Romussi, esponente del partito Radicale. L’interesse per Alessandro Volta aveva rafforzato la reciproca stima tra Musa e Francesco Somaini, il quale nel 1883 aveva aperto a Lomazzo un grande cotonificio (attivo sino al 1974) e, pochi anni più tardi, il villaggio operaio, dove ai lavoratori veniva fornita non solo un’abitazione decorosa, ma anche la possibilità di acquistare a prezzi più bassi il pane e il latte e quella di migliorare la propria istruzione.

A Como la Pro Cultura Popolare (PCP) organizzò una biblioteca circolante e corsi di formazione serali, presso la sede della Camera del Lavoro; un salto di qualità avvenne nel 1908, quando Musa divenne Assessore alla Cultura nella nuova giunta di sinistra: la PCP, da tempo impegnata anche a organizzare soggiorni e iniziative ricreative per i figli degli operai, ottenne la qualifica di “ente morale” e, al contempo, lanciò una sottoscrizione pubblica per la costruzione del Politeama: una grande sala per spettacoli teatrali e cinematografici.

Molti dei palchettisti, cioè dei detentori della proprietà del Teatro Sociale, pensavano che la soluzione più semplice per il Politeama sarebbe stata procedere alla copertura dell’Arena, l’area scoperta che si trovava alle spalle della facciata meridionale, verso corso Indipendenza e le antiche mura. Prevalse invece l’idea di cogliere l’occasione per procedere all’urbanizzazione d’una zona contigua al vecchio centro storico: una scelta caldeggiata, tra gli altri, da Mantero, all’epoca ancora visto con una certa diffidenza dai palchettisti.

La Giunta concesse un terreno comunale posto sulla strada da poco intitolata al leader radicale Felice Cavallotti, all’altezza della piazza “garibaldina” dedicata ai Cacciatori delle Alpi. Il progetto fu affidato all’architetto milanese Federico Frigerio, il quale per la prima volta a Como fece uso, nelle strutture di sostegno del Politeama, del cemento armato.

I palchettisti non rinunciarono alla loro idea, ma dovettero attendere il 1938 per procedere, su progetto di Carlo Ponci, alla costruzione d’un palcoscenico coperto e delle relative gradinate: finalmente l’Arena poteva diventare teatro estivo e cinema all’aperto senza interferire col retrostante Teatro Sociale. La soluzione non incontrò particolare favore; dagli anni ‘60 rimase inutilizzata, e solo in anni recenti si è ripristinata la facciata neoclassica originaria.

Il Politeama entrò in funzione nel 1910. La sottoscrizione pubblica aveva consentito di far fronte alle spese, ma la conseguenza fu un notevole frazionamento della proprietà; basti pensare che nel 2005, alla morte dell’ultimo patron, Alfredo Gaffuri, il 21,6% delle quote risultava intestata a ben 69 persone, quasi tutti eredi dei soci PCP della prima ora.

Musa, resosi conto del fatto che per la grande capacità ricettiva il nuovo teatro non avrebbe potuto essere l’auspicata sede delle attività del PCP, in quello stesso 1910 ottenne dal Comune a un prezzo di favore un terreno posto agli inizi del viale Cavallotti e affidò a un cugino architetto, il milanese Cesare Mazzocchi, la realizzazione dell’Istituto Carducci, edificio che oggi ospita una delle sedi dell’Università dell’Insubria.

Si trattava d’una scuola dotata di un grande auditorium, di un piccolo giardino botanico didattico e finanche di una raccolta di cimeli voltiani, voluta dall’altro grande finanziatore, Casartelli, all’epoca assessore all’Economia.

Il 20 aprile 1911 il Politeama ospitò una “serata futurista” di Filippo Tommaso Marinetti, reduce dal divorzio da un altro letterato milanese ben noto a Como, Gian Piero Lucini.

In quella - come in altre serate tenute in altre città - gli artisti Umberto Boccioni e Carlo Carrà ebbero uno scontro non solo verbale con parte del pubblico, che non accettava le poco argomentate critiche alle politiche riformiste poste in atto dalla giunta “progressista” in città. Il “seme” gettato dai primi futuristi attecchì rapidamente: Antonio Sant’Elia divenne amico di Boccioni e scrisse, nel luglio 1914, il Manifesto dell’Architettura Futurista.

L’8 marzo 1924, durante la campagna elettorale per le elezioni che avrebbero sancito la vittoria fascista, i dirigenti locali del partito condivisero pienamente il discorso con il quale Marinetti aveva esaltato Sant’Elia (morto in battaglia nel 1916) non solo quale innovatore, ma anche come autore di progetti effettivamente realizzabili. Di lì a poco (1927) Pietro Lingeri e il giovane Giuseppe Terragni con l’edificio Novocomum avrebbero avviato la corrente nota come Razionalismo.

È interessante ricordare che l’elemento “di rottura” rispetto alla tradizione consolidata per gli edifici residenziali e commerciali fu lo spigolo angolare soprelevato, che venne contestato dall’Ufficio Tecnico comunale perché non corrispondeva al progetto depositato.

Le opere di Mantero

Terragni all’epoca aveva solo 23 anni, tuttavia poteva contare sul sostegno incondizionato del fratello Attilio, il quale (come il padre) era titolare d’una impresa edile; tra l’altro il suo primo progetto importante, villa Saibene, in stile neo-medievale, era stato realizzato nel 1926, quando Giuseppe non aveva ancora conseguito la laurea al Politecnico di Milano.

In quegli anni era attivo a Como anche un altro giovane architetto per il quale fu decisivo il sostegno fraterno: Gianni Mantero, il più giovane dei figli di Carlo, nato nel 1897 a Novi Ligure. Poco interessato al commercio, dopo il liceo s’iscrisse a Milano all’Accademia di Brera. Riccardo sperava che Gianni s’impratichisse nel disegno, così da fornirgli nuove fantasie per i tessuti, ma il giovane optò per l’ingegneria, e più che all’arte applicata s’interessò alle lezioni dell’anziano architetto eclettico Camillo Boito.

Gli studi furono interrotti dalla chiamata alle armi; Gianni fu assegnato a una brigata di fanteria di nuova costituzione, la Mantova, destinata a diventare “carne da cannone”. Dopo un periodo iniziale a Brentonico, in Trentino, il suo reparto nel maggio e nell’agosto 1917 finì in prima linea, sul Timavo. Mantero, sottotenente, venne fatto prigioniero e inviato in un campo ungherese, dove rimase sino al 1919, in quanto gravemente debilitato.

Come molti altri ex combattenti s’iscrisse al Politecnico di Milano avvalendosi d’una legge che prevedeva una corsia preferenziale per gli ex combattenti; l’agognata laurea venne nel 1922, con una tesi discussa davanti a uno dei più operosi professionisti milanesi del periodo, Giovanni Muzio.

Il primo Dopoguerra era stato un periodo di crisi per il comparto serico comasco; sia per le difficoltà d’esportare, sia per la crisi indotta nel sistema creditizio locale dal tracollo della Banca Italiana di Sconto, che negli anni della Guerra aveva ambito a diventare una vera e propria banca di sistema. Il forte sviluppo qualitativo e quantitativo delle fibre artificiali accresceva i dubbi dei potenziali investitori sul futuro del settore.

Ciò nondimeno la Mantero fu tra le meno toccate dalla crisi: sia perché da sempre puntava sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sia perché negli anni precedenti aveva accumulato molte scorte, e quindi il rincaro della materia prima (effetto della forte inflazione) la toccava meno di altre aziende locali. Riccardo, cui piaceva il ruolo del “patriarca”, decise di affidare a Gianni (che stentava a trovare uno sbocco professionale) la costruzione d’una nuova sede della Ditta, che fosse al contempo la residenza di famiglia. Essa venne realizzata su un terreno di proprietà in fondo a via Volta, col preciso intento di dissimulare la funzione degli uffici in un edificio ricco di logge e balconi che si richiamavano al neo-medioevo tanto caro a Boito; non a caso Gianni era partito dai disegni della sua tesi di laurea.

Una seconda prova, senza dubbio più moderna, fu il palazzo per uffici e abitazioni realizzato a poca distanza dal Politeama, in via Garibaldi, all’angolo con viale Varese: trifore e porte con archi a tutto sesto rimangono a scandire gli spazi interni, ma nelle facciate le numerose finestre sono rettangolari, evidenziate da un contorno in bugnato, e rispetto alla casa di via Volta (che sarebbe stata modificata e ampliata dallo stesso Gianni nel 1936) si nota un maggior uso delle inferriate artistiche, già punto di forza dell’eclettismo liberty del primo Novecento.

Il palazzo, è noto con il nome dei committenti, i Barazzoni, famiglia comasca che già alla fine del ‘700 aveva contatti commerciali con Aberdeen, in Scozia. Anton Ezio Barazzoni (all’epoca amico di Gianni) amava la purezza delle linee rinascimentali; non a caso nel 1932 sarebbe stato l’anima d’un progetto di recupero e parziale trasformazione del palazzo tardogotico (1480) del vescovo Branda Castiglioni, prossimo al Broletto.

Mantero nel 1927 aveva sposato Margherita Perti; in quell’anno il movimento Razionalista aveva subito uno smacco. In occasione della nuova Esposizione Voltiana, indetta per celebrare il centenario della morte dello scienziato, Somaini, sempre legato alla PCP, aveva deciso di donare alla città un Tempio Voltiano, riservandosi la scelta del progettista, che fu l’autore del Politeama, cioè Fontana, noto avversario di Terragni.

Egli mostrò tutto il suo amore per il neoclassicismo palladiano in un edificio che - anche per la sua posizione sul Lungolago - è diventato uno dei simboli della città. Nel medesimo periodo, e a poca distanza, sorse anche lo stadio Sinigaglia. L’architetto, il milanese Giovanni Greppi, s’ispirò all’impianto coperto di Lomazzo, anch’esso realizzato da Somaini.

Un deciso mutamento di stile in direzione del Razionalismo caratterizzò l’opera di Mantero a partire dal 1929, con la realizzazione dei magazzini Mantovani; l’anno seguente egli partecipò con i nuovi amici alla prestigiosa Esposizione di arti decorative a Monza, dedicandosi anche al design di arredi d’interni, e nel 1931, in occasione del concorso per il nuovo mercato coperto cittadino, collaborò ai progetti di due imprese edili in teoria concorrenti, la Mondelli e la Galliani; un notevole successo personale fu, subito dopo, la realizzazione della Canottieri Lario, un buon esempio di Razionalismo in una collocazione prestigiosa quale il Lungolago. Il divorzio dai Fontana e dai Barazzoni era ormai compiuto. 

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Ultima modifica 03/07/2017