La nuova via della seta... e noi

Quando si parla del progetto cinese “Una cintura, una via” (traduzione dell’acronimo inglese BRI: Belt and Road Initiative) molti restano stupiti. A dimostrazione di quanta poca attenzione venga dedicata a un disegno che potrebbe cambiare il mondo. Si tratta, infatti, di un’iniziativa estremamente ambiziosa che mira a collegare la Cina con l’Europa via terra e via mare ed è stata lanciata a fine 2013 dal governo di Pechino. Stiamo parlando soprattutto di un programma di investimenti infrastrutturali che punta a sviluppare la connettività e la collaborazione tra la  Cina e almeno altri 70 Paesi localizzati in un’area che rappresenta un terzo del PIL mondiale, racchiude almeno il 70% della popolazione e possiede oltre il 75% delle riserve energetiche globali. Secondo quanto dichiarato dalle autorità cinesi, l’obiettivo primario è quello di creare un grande spazio economico eurasiatico integrato, ampliando i legami già esistenti con l’Unione Europea. Il Piano d’azione per la BRI prevede, nel dettaglio, due direttrici principali, sulla falsariga dell’antica Via della Seta. Quella terrestre - Silk Road Economic Belt - collegherà non solo i centri produttivi della Cina meridionale ai mercati di consumo europei tramite ferrovia attraverso l’Asia Centrale, ma anche la Russia alla Turchia, passando per Pakistan e Iran, e all’India, tramite il Sud-Est Asiatico (Thailandia e Myanmar). La direttrice marittima, la cosiddetta Maritime Silk Road, permetterà invece alle merci cinesi di raggiungere il Mediterraneo attraverso Suez, estendendosi fino alle coste dell’Africa Orientale (Gibuti, Kenya e Tanzania) e al Maghreb, e il resto dell’Asia tramite il Mar Cinese meridionale.

Analizzando i vari corridoi previsti dalla BRI emerge un sensibile aumento delle rotte ferroviarie che collegheranno l’Asia sia internamente che con l’Europa. Secondo alcune stime, infatti, una volta a regime le ferrovie della Nuova Via della Seta saranno in grado di movimentare almeno  500.000 container all’anno creando nuove opportunità commerciali e favorendo lo sviluppo economico di un’area, l’Asia Centrale, che a oggi è tra le meno connesse a livello internazionale e tra le più promettenti in termini di crescita potenziale. Una delle questioni più controverse per la realizzazione degli almeno 266 progetti previsti dalla BRI è sicuramente quella finanziaria, considerando che, secondo alcune stime, sarebbe necessario un monte investimenti di almeno 1.700 miliardi di dollari (ma vi sono altre stime che quantificano il fabbisogno in 4.000 miliardi di  dollari). Solo nel 2017, secondo l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese, il volume degli scambi tra Cina e Paesi lungo la Belt and Road è stato pari a 7.400 miliardi di RMB (circa 950 miliardi di Euro): una cifra che ha rappresentato un aumento di quasi il 18% rispetto all’anno precedente e  oltre il 14% del commercio estero complessivo della Cina. Nello stesso anno, sempre secondo le statistiche ufficiali, gli investimenti effettuati nei Paesi dell’area BRI sono stati pari a 14,4 miliardi di dollari (escluso il settore bancario e assicurativo). Secondo Oxford Economics, inoltre, nel  periodo 2018-2022 il gigante asiatico investirà almeno 130 miliardi di dollari all’anno nei progetti BRI, che riguarderanno principalmente i settori dell’energia e dei trasporti.

Per risolvere il problema dei finanziamenti la Cina ha creato un fondo apposito, il Silk Road Fund da 40 miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo infrastrutturale e l’industria manifatturiera dei Paesi coinvolti nell’iniziativa. A questo si aggiunge la dotazione di 100 miliardi di dollari  dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la banca operativa da maggio 2016 che ha tra i Paesi fondatori l’Italia, quarto azionista europeo per partecipazione con il 2,58% del capitale. L’Istituto per il momento ha finanziato 24 progetti per complessivi 4,2 miliardi di dollari nei  comparti energetico, dei trasporti e idrico.

Questa imponente iniziativa rappresenta uno dei progetti geopolitico-culturali più forti che siano stati proposti negli ultimi anni al mondo. Essa prevede la riscoperta dell’Eurasia come spazio sociale, politico ed economico, con nuove opportunità nel campo delle relazioni internazionali.  In altre parole, le nuove vie della seta rappresentano non solo una grande sfida trasportistica, ma un cambio di paradigma epocale nel quadro della globalizzazione, caratterizzato dallo spostamento a est del baricentro del mondo. Per trent’anni la Cina ha registrato in media un  tasso di crescita del PIL del 10% per poi rallentare dal 2011 e attestarsi oggi al 6,7%. Pechino definisce questa congiuntura come la “nuova normalità”. L’urbanizzazione costiera ha creato un’ampia classe media che sta alimentando il consumo della produzione manifatturiera e la  domanda di servizi. Allo stesso tempo, larga parte della Cina interna è ancora povera e arretrata. A livello domestico Pechino vuole servirsi della BRI per imprimere una svolta al Paese, costruire opere pubbliche di grandi dimensioni, modernizzare le aree depresse e aumentare il  benessere delle zone critiche. Inoltre la Cina punta sulla BRI per rafforzare l’accesso alle risorse naturali necessarie al suo apparato produttivo, ridurre la sovracapacità industriale e supportare attivamente le economie in via di sviluppo. Secondo Pechino, il progetto persegue un  nuovo pacifico assetto internazionale che passa attraverso lo sviluppo economico del continente euroasiatico. Questa nuova visione e il suo potenziale ruolo negli equilibri mondiali sono segnati dalla precarietà strategica dei rapporti competitivi con gli Stati Uniti, con prospettive che  si preannunciano ancor più incerte e complesse con l’avvio dell’era Trump. La destinazione finale della BRI è l’Europa comunitaria, dove le nuove vie della seta si legano alle fondamentali reti di trasporto transeuropee.

Queste attraversano anche l’Italia, che grazie alla sua posizione nel mar Mediterraneo può avere un ruolo di rilievo lungo i nuovi tracciati. Certo, non può esistere un approccio italiano alla nuova via della seta ferroviaria che prescinda da una strategia europea. Non ci sono le  condizioni geopolitiche, economiche e finanziarie per avventure solitarie. Tuttavia, c’è spazio per un ruolo attivo del nostro Paese alla luce dei suoi interessi industriali, commerciali ed energetici. Nel giugno 2014, l’allora primo ministro italiano Matteo Renzi e il suo omologo cinese hanno adottato un piano d’azione che considera prioritari per la collaborazione bilaterale le tecnologie verdi, il settore agroalimentare, quello aerospaziale, l’urbanizzazione sostenibile e i servizi sanitari. In tali ambiti, l’esigenza di sviluppo cinese e il potenziale italiano sono  complementari. La Belt and Road Initiative rappresenta un’opportunità di grande interesse per le aziende italiane non solo per gli investimenti previsti, ma anche per gli effetti che avrà sull’economia dei Paesi coinvolti. Le nostre imprese di costruzione sono presenti in 40 dei 70 Stati  BRI, con contratti (concentrati nella realizzazione di sistemi infrastrutturali come strade e metropolitane) per un valore complessivo di oltre 36,6 miliardi di euro, pari al 40% del totale delle commesse in corso (90,8 miliardi) aggiudicate dalle imprese edili italiane nel mondo.

A livello commerciale i Paesi BRI assorbono il 27% dell’export italiano nel mondo: in particolare, la Cina rappresenta il nono mercato per le esportazioni di prodotti made in Italy, che nel 2016 hanno toccato gli 11,1 miliardi di euro. L’Italia è il quinto partner commerciale di Pechino,  nonché uno dei principali destinatari degli investimenti cinesi all’estero. Considerando il richiamo dei prodotti italiani nel mondo e il fatto che più del 20% della popolazione cinese è interessata al consumo di alimenti di qualità e d’importazione, l’agroalimentare è uno dei settori dell’economia italiana che dovrebbe beneficiare maggiormente del progetto BRI. Per ora il nostro Paese è al ventunesimo posto tra i partner commerciali di Pechino nel comparto, ma la crescente domanda di alimenti sicuri da parte della popolazione cinese è uno stimolo all’importazione di prodotti finiti e allo sviluppo in loco di tecniche di conservazione di alimenti freschi.

Per svolgere un ruolo di rilievo lungo le nuove vie della seta sarà necessario dotarsi di infrastrutture adeguate ad accogliere grandi flussi di merci. La combinazione di un trasporto efficiente su nave e ferrovia permetterebbe all’Italia di diventare un luogo di transito privilegiato per il  flusso commerciale proveniente dal mar Mediterraneo. Gli sforzi di singoli enti difficilmente spingeranno la Cina a puntare sul nostro Paese, pertanto occorre una strategia che metta a sistema le iniziative nazionali. A questo proposito, è stata costituita una Task Force con il compito di  identificare precise linee d’azione (un gruppo ristretto di Stati BRI, specifici progetti di interesse prioritario, pacchetti finanziari e iniziative promozionali e di sostegno istituzionale) che permettano alle nostre aziende di competere efficacemente a livello internazionale. Saranno inoltre realizzate iniziative volte a favorire contatti diretti tra le nostre aziende e le società pubbliche cinesi presenti nei Paesi BRI per avviare eventuali collaborazioni. Verranno poi organizzati eventi per promuovere la partecipazione delle medie imprese italiane come subappaltatori e  fornitori dei vari progetti che richiederanno il nostro contributo tecnologico.

In questo scenario, l’Italia deve valutare attentamente le opportunità in base alla sua posizione strategica. Se si cercano dei punti fermi cui ispirarsi, possiamo trovarli nelle parole lungimiranti pronunciate da Luigi Federico Menabrea il 25 giugno 1857 durante la dichiarazione di voto  nel Parlamento Subalpino, riunito per deliberare la realizzazione del Traforo del Moncenisio: ”Io credo nell’avvenire certo dell’apertura dell’istmo di Suez, perché sono convinto che l’Europa finirà per capire che è condizione della sua sopravvivenza aprirsi questa via verso le Indie e il  mare della Cina, per controbilanciare la potenza di un popolo rivale che sta crescendo con stupefacente rapidità e sta diventando gigante al di là dell’Atlantico. Io dico che l’avvenire del nostro Paese è assicurato, che esso arriverà ad un grado di prosperità inimmaginabile oggi,  perché sarà passaggio obbligato di una gran parte del commercio e del transito fra l’Europa e l’Oriente”. Queste parole restano la più lucida motivazione delle ragioni europee e italiane per comprendere e concorrere a realizzare le nuove vie della seta, dall’Atlantico al Pacifico.

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Ultima modifica 14/02/2019