Genova e la Casa delle Compere

Genova e la Casa delle Compere

Dai primi anni del ‘400 la Compagna Communis (nome dello Stato genovese prima dell’istituzione, dal 1528, della Repubblica) ritenne opportuno gestire in modo univoco i rimborsi degli interessi e del capitale dovuti alle società temporanee tra prestatori (comperisti) che in varie occasioni avevano finanziato il debito pubblico.
Non era infrequente il caso di comperisti costretti dalle circostanze a sciogliersi da una compera ancora in corso; ciò ovviamente metteva in difficoltà gli altri soci e rendeva più difficile al comune ottenere nuovi prestiti. Onde favorire la negoziazione delle obbligazioni, si decise di far confluire la massa debitoria dello Stato nella “Casa delle Còmpere e dei Banchi”, soggetto giuridico il cui capitale (cioè l’insieme delle compere attive) venne frazionato in quote (luoghi) del valore nominale di 100 lire genovesi.
I comperisti si trasformarono così in luogatari, cui era consentito l’accesso al “Gran Consiglio delle Compere”, i cui 480 membri deliberavano sulle condizioni dei nuovi prestiti allo Stato genovese e decidevano caso per caso se fosse più conveniente gestire oppure appaltare l’esazione delle gabelle su talune merci e delle imposte nelle località che la città inseriva tra le garanzie per le nuove compere. Le proposte, prima di giungere in votazione, erano vagliate dai 20 membri di diritto del Gran Consiglio, e in particolare dagli otto Protettori, ben consapevoli dei risvolti politici delle decisioni assunte.
Nel 1443 la Casa delle Compere aveva a disposizione una stanza nel palazzo comunale appartenuto ai Del Mare; pochi anni dopo l’iniziativa dei luoghi aveva avuto un impulso tale che il doge Pietro Fregoso decise di affidarle l’intero edificio, dedicato a San Giorgio.
L’anno seguente (1452) quel nome venne scelto anche per il nuovo ordine cavalleresco istituito da Federico III e destinato ad accogliere il fiore della nobiltà genovese.
Al primo piano della Casa di San Giorgio si trovavano i banchi (tavoli) dove venivano annotati nei registri pubblici, in partita doppia, i nomi dei luogatari, il numero dei luoghi a essi intestati, gli interessi e i rimborsi. Nel 1453 il doge Fregoso concesse alla Casa l’amministrazione della Corsica, previo consenso degli isolani; altre cessioni parziali di sovranità alla Casa di San Giorgio si ebbero negli anni: 1479 (Lerici); 1484 (Sarzana); 1512 (Pieve di Teco, al confine col Piemonte); 1514 (Ventimiglia); 1515 (Lèvanto).
Nel corso dei secoli il sistema dei luoghi assunse i caratteri di un investimento finanziario che garantiva una rendita prossima al 2,5%. La negoziazione dei luoghi consentiva di ridurre i rischi connessi al trasferimento e/o alla conservazione di denaro fisico: i dipendenti della Casa, situata in prossimità del porto, fungevano da ufficiali pagatori, oltre che da esattori di alcune tasse e gabelle. Nella Casa di San Giorgio si poteva cambiare ogni sorta di valuta (numerato) e si negoziavano anche le lettere di cambio.

La Casa di San Giorgio e i Caravana


I Protettori non potevano non interessarsi all’andamento delle attività produttive e commerciali originate dal porto, da cui dipendevano gran parte delle entrate fiscali. Essi non erano mercanti, quindi non avevano interesse a cercare di risparmiare sulle paghe dei lavoratori portuali mettendoli in concorrenza: le “guerre tra i poveri” avevano effetti destabilizzanti, anche sul corso dei luoghi. Essi preferivano affidarsi alla più antica compagnia organizzata di camalli (facchini) quella detta dei Caravana, i cui statuti risalivano al 1340.
I Caravana lavoravano suddivisi in squadre. Si erano dotati di un sistema previdenziale: parte della paga veniva trattenuta e destinata ai soci lavoratori infortunati. Nel 1381 il sodalizio disponeva di sette letti nell’ospedale della Maddalena.
I Caravana erano pagati un po’ più degli altri camalli perché garantivano di rifondere al cliente eventuali danni alla merce scaricata, dovuti a negligenza o imperizia. Molti tramandavano il mestiere ai figli; per tradizione le mogli, anche se genovesi, andavano a partorire nella Bergamasca, e i figli registrati in quelle parrocchie.
Nel 1434 un gruppo di camalli genovesi indirizzò alle autorità una supplica, lamentandosi dei privilegi accordati ai Caravana, ma queste ultime fecero orecchie da mercante; nel 1459 i Caravana ottennero dalle autorità che i famigli, cioè la polizia portuale, dietro loro denuncia avrebbero provveduto a trattenere e a multare i camalli non organizzati che si fossero azzardati a trasportare merci di competenza esclusiva della confraternita.
Uno dei primi atti della neonata Repubblica di Genova, sorta su impulso di Andrea Doria (il grande ammiraglio che aveva legato le sorti del piccolo stato ligure alla Spagna), fu di adottare provvedimenti efficaci contro la tendenza ormai chiaramente posta in atto da parte degli armatori delle navi olandesi - cui facevano capo i traffici delle Fiandre, regione storicamente molto legata in campo economico alla Superba e alla Lombardia - di privilegiare le rotte atlantiche rispetto a quelle mediterranee.
Nel 1531 venne reso noto agli armatori che sarebbe stata accordata un’importante esenzione daziaria ai bastimenti con carichi di cereali o legumi secchi, se non completo almeno per i 2/3. Il provvedimento si rivelò di difficile applicazione: nel buio di una stiva con carico alla rinfusa (non confezionato in balle o sacchi) non era facile definire se davvero i cereali (nel caso degli olandesi, grano tenero polacco) fossero la parte preponderante.
Ma per l’abbandono del progetto fu determinante la Casa di San Giorgio, che temeva la riduzione delle entrate del suo maggior debitore, in un periodo di crescente ristagno economico. Nel 1562 il Gran Consiglio decise di restituire alla Repubblica la piena sovranità sulle località sopra menzionate, poiché i costi di esazione si erano rivelati più alti rispetto al gettito effettivo degli ultimi anni. Era un segnale di debolezza dovuto in primo luogo alla crisi della marineria genovese, per la quale un punto di svolta sarebbe giunto solo con la battaglia di Lepanto, nel 1571. I rapporti tra la Casa di San Giorgio e il governo rimasero comunque molto stretti, anche perché essa aveva notevole voce in capitolo nella privativa sulle lotterie, in quella del commercio del sale e sulla zecca. Vent’anni dopo, quando nella rivale Livorno venne istituito il “porto franco”, la Repubblica applicò con maggior determinazione analoghi provvedimenti di esenzione dai dazi. Nel giro di due decenni il porto franco si rivelò una scelta felice; il Gran Consiglio ne prese atto, e dal 1623 ne ottenne la gestione diretta.
Dal 1630 inoltre la Casa fu autorizzata a emettere propri biglietti di cartulario nominativi, pagabili a vista e trasferibili mediante girata. Le truppe giacobine nel 1797 si impadronirono della cassa, tuttavia parte delle funzioni finanziarie vennero lasciate all’istituzione, ridenominata in epoca napoleonica Banco di San Giorgio.

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Ultima modifica 02/07/2020