La missione della Fondazione, si legge sul sito, è suddivisa in tre macroaree: protezione del patrimonio, sensibilizzazione e mobilitazione attiva. Che cosa caratterizza questi filoni di attività?
Mentre un’associazione è un insieme di persone che si uniscono per realizzare uno scopo, una fondazione “è” il suo patrimonio: potrebbe non avere neanche un iscritto, cosa che di fatto avviene in molti casi. Noi siamo un po’ un ibrido, una “fondazione partecipata”, ma pur sempre una fondazione, che ha come scopo esclusivo (secondo l’articolo 2 dello statuto) l’educazione della collettività alla conoscenza e alla tutela del patrimonio artistico e monumentale italiano. I Beni che il FAI possiede sono il mezzo fondamentale per realizzare il suo scopo, e per questo la nostra attività consiste prevalentemente nella cura e nella manutenzione dei Beni che ci sono affidati. In sintesi: il nostro scopo ultimo è l’educazione, ma il mezzo per arrivarci è la gestione in maniera esemplare di pezzi del patrimonio, affinché questi Beni diventino strumenti educativi e non solo luoghi da visitare.
C’è da aggiungere che l’articolo 188 della Costituzione recita: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Quindi è la stessa Costituzione a stimolare attività come quella del FAI, riconoscendo che alcuni servizi per la collettività possano anche essere svolti da gruppi di cittadini singoli o associati. Un ruolo bello e importante, legato anche al volontariato e basato sul fatto che il cittadino, se si organizza, può aiutare le istituzioni nel servire la comunità. Ho usato la parola “servire”, che mi piace molto, perché si tratta proprio di un servizio: quando chiediamo alle persone di iscriversi, di donare fondi, lo facciamo con grande serenità perché non si tratta di richieste a favore di un ente terzo, ma delle persone stesse, qualcosa che ritorna al Paese e a chi lo abita.
In questo consiste il primo grande filone di attività del FAI, secondo me il più importante in assoluto: l’utilizzo, il restauro, la valorizzazione, il racconto dei Beni come palestre di educazione. Non si tratta solo di apprezzare la bellezza di un Bene: durante le visite le nostre guide raccontano, spiegano i motivi, la storia, le radici, quello che c’è di particolare e unico; un messaggio speciale e diverso per ogni proprietà. Come ad esempio Villa Necchi Campiglio, dove raccontiamo la storia - pressoché sconosciuta - di Milano come città d’acqua, che naviga su una falda, e le potenzialità di utilizzo concreto che questa offre.
Passiamo al secondo filone: la sensibilizzazione.
All’inizio abbiamo dovuto inventarci qualche modo per raccontare il perché della nostra esistenza: abbiamo quindi creato le Giornate FAI di Primavera, i Luoghi del Cuore e altre iniziative ancora oggi molto popolari.
Oggi possiamo considerarci una realtà consolidata (lo scorso anno i nostri Beni hanno registrato 1.200.000 visitatori): con le nostre attività abbiamo insomma contribuito alla maturazione dell’interesse degli italiani nei confronti del patrimonio. Il “trucco” è molto facile: innanzitutto aprire quei luoghi che di solito non sono accessibili; e poi, grazie all’ideazione degli “Apprendisti Ciceroni”, coinvolgere ragazzi che raccontino i monumenti. I giovani sono vivaci, virtuosi, raccontano con un’energia e una freschezza capaci di coinvolgere, e c’è un concetto educativo che agli adulti piace molto.
Questi fattori hanno fatto sì che le Giornate FAI abbiano certamente contribuito ad avvicinare il pubblico italiano alla propria storia: di natura, di architettura, di pittura, di personaggi, di archeologia industriale… l’importante è raccontare vicende di grande peso civile, sociale e culturale legate al progresso del Paese, a esempi che hanno fatto grande l’Italia. Grazie ai Luoghi del Cuore, ad esempio, abbiamo restaurato e trasformato in museo l’Amideria Chiozza in Friuli: una grande fabbrica di amido che è stata a suo tempo all’avanguardia, e che ha fatto riscoprire un orgoglio locale per tutta la comunità.
Sono tutte cose importanti, e gli italiani sono molto ma molto meglio di come essi stessi si dipingono: conservano nel profondo del loro cuore, anima, intelletto, una grande attenzione e un orgoglio per la propria storia; da questo punto di vista, quello italiano è un popolo fiero della propria identità. La cosa divertente è che, naturalmente, questo orgoglio è sempre più forte nei confronti della propria specifica realtà: ognuno è fiero del proprio campanile, che considera sempre il più alto, il più bello, il più antico… Ma anche questo è un atteggiamento molto positivo: ognuno ritiene che il proprio pezzo d’Italia sia il più bello in assoluto.
E questa non è una colpa, anzi: è una peculiarità che va sfruttata, perché spinge a una forma di positiva emulazione. Se tutti mettono in evidenza e valorizzano le bellezze del proprio ambito territoriale, è l’Italia nel suo complesso a diventare ovviamente più bella. E il successo del FAI lo attesta, dato che non avrebbe altrimenti trovato terreno fertile. All’inizio si temeva che una fondazione di questo tipo non avrebbe suscitato interesse, che nessuno si sarebbe iscritto, che nessuno avrebbe donato i propri beni; i fatti, invece, hanno dimostrato il contrario.
Terzo filone di attività del FAI: la “mobilitazione attiva”…
Devo dire che questa di “vigilanza” è un’attività che svolgiamo con una certa ponderazione. Certo, laddove vengono intaccati valori relativi ai nostri Beni, ci poniamo ovviamente come i più strenui difensori (come è successo nella lunghissima battaglia per evitare che proprio sotto il Castello di Masino costruissero un immenso centro commerciale). Abbiamo un ufficio che si occupa di valutare le moltissime denunce che ci arrivano continuamente, ma cerchiamo di focalizzarci solo su quelle veramente lesive per il buon nome della Fondazione.
Il FAI è nato nel 1975, lei è entrato a farne parte nel 1985. Che cosa è cambiato dagli inizi, quanto a sensibilità e tipologie dei luoghi?
All’inizio pensavamo di salvare solo luoghi di arte e architettura. Però una fondazione come la nostra deve funzionare come un’azienda e cercare di chiudere i bilanci almeno in pareggio, se non in attivo; quest’ultimo è impiegato interamente in restauri, quindi a beneficio della collettività. Detto questo, quando si fanno dei piani di sviluppo, in una normale azienda si è consapevoli più o meno di dove sta andando il mercato. Per noi invece non è così: non sappiamo mai che tipo di donazioni ci verranno proposte e che tipo di realtà ci troveremo a gestire. Il nostro sviluppo, insomma, dipende molto spesso dalla volontà imperscrutabile di persone che non conosciamo. È anche divertente, perché si va dove ti porta il cuore… altrui. Io, all’inizio, certo non avrei mai pensato di occuparmi di vacche; ma negli ultimi dieci anni abbiamo ricevuto due grandi alpeggi che stiamo al momento restaurando, acquistando il bestiame, scegliendo le razze giuste per il luogo… storie che consentono in questo caso di raccontare l’importanza della cura del territorio, perché lo stress del sistema idrogeologico parte dai terreni agricoli abbandonati, e anche la gestione di un alpeggio consente di fare educazione.
Molto è cambiato, insomma, in relazione alle donazioni che sono avvenute: di recente abbiamo ricevuto un’azienda agricola di 200 ettari sul lago di Bolsena: un’azienda “vera” e funzionante, con un frantoio e una splendida cantina. Per la prima volta noi proveremo a essere dei veri agricoltori: Fin qui abbiamo sempre gestito beni naturali: ulivi, vigne… ma più che altro seguendo un concetto estetico, di conservazione. Adesso invece proveremo a essere dei veri agricoltori, cimentandoci nella corretta gestione di un paesaggio agricolo storico e facendo in modo che il bilancio risulti quantomeno in pareggio. Questo a dimostrazione di quanto sia importante l’attività agricola per la difesa del paesaggio, essendo quest’ultimo uno dei grandi tesori del Paese da tutelare e conservare: fissando vincoli, ma anche offrendo esempi positivi di come si possa fare. Vogliamo provare a dimostrare che l’agricoltura collinare ha ancora un futuro.
Come funzionano le donazioni?
C’è una selezione enorme, di cui inizialmente mi occupavo io in prima persona; poi, naturalmente, c’è sempre un consiglio di amministrazione che decide. Adesso (dopo una prima visita di cui mi occupo personalmente), le varie strutture della Fondazione (restauro, gestione, valorizzazione) giudicano e valutano le necessità e le potenzialità economiche del Bene e quindi la possibilità di prenderlo in carico. Oggi non accettiamo quasi più nulla che non sia supportato anche da una dote, cioè un importo in denaro come contributo al mantenimento. Ad esempio, Ennio Brion ci ha donato la meravigliosa tomba-memoriale di Carlo Scarpa ad Altivole con una dote molto consistente; dal momento che non si può far pagare un biglietto per visitare un cimitero, diversamente non avremmo avuto la possibilità di sostenerne i costi di gestione.
Certo, la selezione è dura; vorremmo anche ricevere molti più beni al Sud… ma continuano ad arrivarcene soprattutto dal Nord Italia.
Sempre parlando di soldi, quali sono i principali filoni attraverso cui vi finanziate?
Ovviamente variano nel tempo. All’inizio, senza i grandi mecenati non saremmo neppure partiti. Ricordo il brindisi quando abbiamo festeggiato i 1000 soci… adesso navighiamo velocemente verso i 300.000. Mentre una volta ricevevamo tanti soldi da pochi, ora, in modo molto più sano, stabile e significativo otteniamo piccoli contributi da una platea molto ampia. Si tratta comunque di un’unica catena: se non ci fossero stati (e non ci fossero tuttora) i “grandi contributori” non ci troveremmo oggi dove siamo; anzi, non saremmo neppure nati. La base attualmente è sempre più costituita dai biglietti d’ingresso dei visitatori e dalle quote annuali (39 euro) degli iscritti. È ovvio poi che il sostegno degli opinion maker e di coloro che tengono le redini dell’economia italiana è tuttora importantissimo, anche come ruolo di garanti.
Qual è stato il progetto di maggiore soddisfazione, che l’ha sorpresa per le sue potenzialità?
Posso citare Casa Macchi a Morazzone, vicino a Varese, che ci è stata lasciata in eredità a nostra insaputa insieme a una dote di un milione e mezzo di euro. Sono andato a vederla poco convinto, più che altro per senso del dovere. E invece sono rimasto così colpito che l’abbiamo accettata. Perché quella, di storia, è del tutto particolare: una signorina di altri tempi, figlia unica, nubile, vessata da un soffocante padre-padrone. Alla morte dei genitori ha chiuso la casa e per 40 anni non ci è mai più entrata, lasciandola intatta, come congelata nel tempo. Un’esperienza unica e straordinaria, perché chiunque sia nato prima degli anni ‘70 ci ritrova un pezzo della propria famiglia. Una storia minima, mai narrata ma importantissima: quella casa racconta le liturgie della silenziosa borghesia italiana, quella che senza clamore, con i piccoli risparmi, ha costruito l’Italia. Infatti ha un successo enorme, con oltre 20.000 visite all’anno. Anche se si è trattato di un restauro difficilissimo: non esiste un protocollo di intervento su strutture così recenti, non ci sono esempi come Casa Macchi in tutta Italia, e stiamo creandoci in questo senso una competenza fino ad ora assente.