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“Quando c’è un grande nemico, la gente è disposta a rinunciare ai propri diritti pur di sopravvivere. Così la corsa agli armamenti ha una precisa funzione in questo senso: crea una tensione globale e un’atmosfera di paura.”

(Noam Chomsky, filosofo e linguista)

La militarizzazione sembra essere diventata la forma dominante dell’economia. La campagna contro il terrorismo di Al-Qaida è servita per giustificare l’attacco all’Afghanistan. Poi è stato il turno dell’Iraq e della Siria e sono due anni che conviviamo con la guerra russo-ucraina, mentre l’ennesimo conflitto israelo-palestinese domina le cronache da circa sette mesi.

Il recente conflitto russo-ucraino, il primo dalla II guerra mondiale che per dimensioni e impegno di risorse ha interessato l’Europa, ha riproposto il significato di cosa sia una economia di guerra. Quest’ultima è un concetto che si riferisce alla capacità di un Paese di sostenere uno sforzo bellico attraverso la mobilitazione efficiente delle sue risorse economiche. In tempo di guerra, le Nazioni devono adattare la propria economia per soddisfare le esigenze delle forze armate, garantendo al contempo una stabilità interna sufficiente per mantenere la coesione sociale. Tutto ciò implica la trasformazione delle attività economiche di un Paese per supportare le esigenze della guerra. Ciò può comportare l’accelerazione della produzione di armi, munizioni e attrezzature militari, nonché l’allocazione efficiente delle risorse finanziarie per finanziare gli sforzi bellici. Questo adattamento richiede spesso la collaborazione tra governo, settore privato e cittadini.

Originariamente, l’economia di guerra esprimeva un adeguamento delle politiche economiche ordinarie di uno Stato alle necessità straordinarie della guerra. Nell’economia di guerra, lo Stato sottopone a una regolamentazione molto estesa l’economia di mercato, senza però sospenderla del tutto, e senza sospendere neppure la proprietà privata dei mezzi di produzione o la libera circolazione della manodopera. In generale quando si adatta un’economia normale alle condizioni belliche, una parte dei consumi viene quindi trasferita dalla sfera civile a quella militare, con la conseguenza che i costi della guerra riducono le entrate delle economie domestiche e la produzione di materiale bellico, al posto di beni di investimento, comporta disinvestimenti. Nell’ultimo anno le spese militari mondiali sono state di 1.464 miliardi di dollari, circa il 2,4% del Prodotto interno lordo mondiale. Pari ad una spesa di 217 dollari per ogni abitante del pianeta, con un aumento del 4% rispetto all’anno precedente e un nuovo record dalla fine della Guerra Fredda.

Capire le ragioni che sostengono le economie di guerra anche in tempi di (relativa) pace non è semplice. Secondo molti politologi, la corsa agli armamenti ha un ruolo decisivo nel tenere in moto l’economia. In particolare, si parla di una sorta di keynesismo militare, quasi una necessità per un’economia in tempi di crisi. Secondo questa teoria, quando un governo spende una certa quantità di denaro per stimolare l’economia, in realtà non importa come li spenda. Potrebbe costruire aerei, potrebbe seppellirli nella sabbia e indurre la gente a scavare per trovarli; potrebbe costruire strade e case, fare qualsiasi cosa in termini di incentivazione dell’economia. In realtà è del tutto verosimile che le spese militari siano effettivamente uno stimolo meno efficiente delle spese sociali; il problema è, però, che le spese per scopi civili presentano effetti collaterali negativi. In particolare, interferiscono con le prerogative del libero mercato. Se il governo cominciasse a produrre qualcosa che le aziende potrebbero vendere direttamente sul mercato, interferirebbe con la loro possibilità di realizzare profitti. La produzione di spreco di macchine costose e inutili non costituisce un’interferenza: nessun altro produrrà, per esempio, bombardieri. Detto questo, oggigiorno la militarizzazione sembra essere diventata la forma dominante dell’economia. La campagna contro il terrorismo di Al-Qaida è servita per giustificare la guerra contro l’Afghanistan. Poi è stato il turno dell’Iraq e della Siria e sono due anni che conviviamo con la guerra russo-ucraina, mentre l’ennesimo conflitto israelo-palestinese domina le cronache da oltre sette mesi. 

I “costi” di un’economia di pace, se paragonati con un’economia di guerra si manifestano in ritorni dell’investimento minori derivanti anche da una più bassa rischiosità per gli investimenti, in maggiore disoccupazione, contro la piena occupazione generata da un’economia di guerra per effetto della realizzazione di una produzione più elevata relativa ai settori di supporto al conflitto e, anche a causa della coscrizione obbligatoria, che comporta che una parte degli occupati vengano destinati alle esigenze militari del conflitto, così riducendo la quantità delle forze di lavoro. Paesi non direttamente coinvolti negli scontri militari cercano perciò di alterare il meno possibile il proprio sistema economico per assicurarsi una posizione di vantaggio subito dopo la fine delle ostilità. Nelle piccole economie nazionali povere di materie prime, occorre inoltre tenere conto di aspetti interni (agricoltura, artigianato, industria, distribuzione e più in generale al sistema dei servizi) ed esterni (importazioni, esportazioni).

Una sintesi strategica ottimale include fattori non solo economici ma anche politici, militari, sociologici e psicologici; se tale sintesi non riesce a conseguire i propri obiettivi, per esempio a causa di una riduzione eccessiva del tenore di vita della popolazione, occorre tenere sotto controllo le dinamiche sociali, perché il conflitto potrebbe alimentare un eccessivo malcontento della popolazione in ragione dell’andamento e della durata delle vicende belliche. Questo è uno dei motivi perché nelle nazioni belligeranti si assiste in genere a un forte controllo, o almeno a un forte orientamento, dei processi di comunicazione. Il ruolo della propaganda nella elaborazione di “storie” sul conflitto e quindi nella diffusione di “narrazioni” funzionali alle esigenze belliche diviene quindi strettamente funzionale nell’orientamento dei comportamenti. C’è poi da considerare la distinzione tra economia di guerra e guerra economica: la prima riguarda direttamente il conflitto armato, nelle fasi della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle “riparazioni”, delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, mentre per guerra economica si intendono le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche.

Questa strategia può essere realizzata colpendo militarmente il sistema di forniture, in particolare quelle via mare, ma più recentemente si attua realizzando un complesso sistema di sanzioni o di restrizioni di natura economica, con l’obiettivo finale di influire sulla disponibilità dei beni e quindi sui loro costi. È infatti evidente che la complessità delle catene globali, l’intrecciarsi di aspetti di tipo produttivo e di variabili di ordine logistico, fanno in modo che, qualora uno dei Paesi che rientrano in queste catene venga inserito in crisi internazionali, le ripercussioni si proiettino anche su altre realtà che hanno adottato una posizione di neutralità. Se poi vengono adottate sanzioni di vario tipo, queste influenzano decisamente la complessiva produzione mondiale. Perciò assistiamo a una espansione del concetto di economia di guerra e di potenziale di guerra che deve tener conto per i singoli Stati anche delle ripercussioni derivanti dal sistema sanzionatorio, che a volte possono infliggere danni paragonabili alle azioni belliche in senso stretto. Un altro aspetto è collegato al precedente e riguarda la fornitura e la disponibilità di materie prime strategiche, il cui concetto si è oggi esteso da quelle energetiche in senso stretto anche alle cosiddette terre rare, che si trovano alla base della produzione di tantissime componenti essenziali per la moderna industria. Gli effetti sono poi amplificati se i Paesi in guerra sono fornitori di materie prime e di parti strategiche per le catene globali del valore.

Ad esempio, nel recente conflitto con l’Ucraina, la Russia, pur avendo una quota non molto elevata del commercio mondiale in generale, fornisce circa il 15% delle esportazioni di petrolio, gas e carbone e al contempo alcuni materiali che sono considerati strategici dalla Commissione europea, per cui la partecipazione di questa Nazione alle catene globali del valore è circa il doppio rispetto alla sua complessiva partecipazione al commercio internazionale; in aggiunta, questo Paese ha uno dei più alti tassi di partecipazione alle catene del valore, in quanto più del 30% del suo export riguarda input utilizzati come beni intermedi dai suoi partner commerciali. Infine, la rapida evoluzione delle tecnologie moderne ha radicalmente trasformato la natura della guerra economica, introducendo nuove frontiere e sfide. L’ascesa della cyber warfare ha aggiunto una dimensione digitale alle strategie economiche e militari. Gli attacchi informatici mirati possono compromettere infrastrutture critiche, interrompere le reti di comunicazione finanziarie, rubare segreti commerciali e influenzare direttamente la stabilità finanziaria di una nazione, mettendo in pericolo la sicurezza delle transazioni e dei dati sensibili.

L’intersezione tra economia e guerra è un fenomeno complesso che continua a plasmare il nostro mondo. L’economia di guerra e la guerra economica sono diventate parte integrante del panorama geopolitico moderno, con conseguenze su scala globale. Mentre le Nazioni cercano di bilanciare la sicurezza nazionale con la stabilità economica, è imperativo sviluppare strategie e accordi internazionali che possano limitare gli impatti negativi di tali dinamiche. Franklin D. Roosevelt diceva che «nessuna Nazione può porre fine alla guerra da sola. È un’impresa che richiede cooperazione e solidarietà. Ma, al contempo, la guerra è anche un potente motore economico. Durante i periodi bellici, le industrie prosperano, le risorse vengono mobilizzate e la società si trasforma. Tuttavia, dobbiamo chiederci se il prezzo dell’economia di guerra, con la sua devastazione umana e ambientale, sia mai veramente giustificabile». La gestione responsabile delle risorse economiche, la promozione della diplomazia e la cooperazione internazionale sono chiavi per affrontare le sfide emergenti e costruire un futuro in cui la pace e la prosperità possano progredire. In un mondo sempre più interconnesso, la consapevolezza delle implicazioni economiche delle tensioni globali è essenziale per coltivare un clima di stabilità e collaborazione su scala internazionale.