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Alle radici del drammatico momento storico dell’industria automobilistica continentale c’è un errore di valutazione piuttosto grossolano: essersi seduti al tavolo dell’auto elettrica senza la giusta consapevolezza delle difficoltà della sfida. E ora la Cina non può che approfittarne.

“L’unico viaggio possibile è quello dentro di noi. Almeno finché non mi riparano l’auto.”
(Leo Ortolani, fumettista)

La sensazione è che nulla tornerà più come prima. Anche perché sarebbe controproducente. Il mercato dell’auto continua a viaggiare a fari spenti e per giunta in aperta campagna, mentre in Europa si fa strada il dubbio che una certa parte del Green new deal vada riscritto, con l’Italia impegnata a chiedere il rinvio delle scadenze per mandare in pensione diesel e benzina. I numeri, d’altronde, non lasciano scampo a riflessioni troppo lunghe. Nell’ultimo anno, secondo i dati dell’Acea, l’associazione dei costruttori europei, le nuove immatricolazioni di auto nell’Unione europea sono calate ad un tasso a doppia cifra rispetto al 2023. Certamente, l’industria automobilistica ha fatto grande il Vecchio Continente. Mai dimenticarlo. Solo lo scorso anno ha contribuito per almeno 460 miliardi al prodotto interno lordo. Il trenta per cento della spesa in ricerca e sviluppo è legata all’auto. Gli occupati tra diretti e indiretti sono circa 13 milioni.

Gli scossoni che un incerto futuro dell’industria può provocare non sono prevedibili. La crisi del comparto non è affatto una novità e va avanti già da diversi anni: è connessa al fatto che l’industria automobilistica sta attraversando una fase di transizione che, senza esagerare, possiamo definire epocale. È opinione diffusa che tutto ebbe inizio con il Dieselgate del 2015 che costò alla Volkswagen 33 mld di dollari in sanzioni, cause legali, riacquisto di auto incriminate. Lo scandalo scoppiò nel momento dell’apoteosi del motore diesel che, grazie agli sviluppi tecnologici, era diventato un sistema di propulsione poco rumoroso, performante, parco nei consumi. Ricordiamo che secondo i dati ACEA, le vetture equipaggiate con motori a ciclo diesel raggiunsero una penetrazione del 56-57% del nuovo venduto in anni come il 2012 o il 2014. Quando si finisce sul podio, si attirano le attenzioni e le invidie di tutti. La componente dolosa della condotta scorretta, che consisteva nella manipolazione dei software di controllo delle emissioni per funzionare in modo benevolo in fase di omologazione delle auto diesel, possiamo dire che aggiunse… gasolio all’incendio, e tutto di un tratto fece perdere quella buona reputazione che il propulsore diesel si era conquistata. Le conseguenze immediate furono per il gruppo Wolkswagen, ma anche altri produttori non ne uscirono indenni (FCA, Bmw, Audi). Alcune multe furono comminate nel 2021, arresti di dirigenti di alto profilo (Audi) furono eseguiti nel 2018, la chiusura di alcune vicende processuali è datata al 2023.

Nel frattempo, la Commissione Europea avanzava nel 2019 le prime proposte del piano cosiddetto “Green Deal” che il Parlamento Europeo, nel 20 gennaio 2020, supportò favorevolmente, con la richiesta alla Commissione di avere obiettivi ancora più ambiziosi. E arriviamo in fine al famoso Fit-For-55, che in varie fasi viene discusso e presentato: una data cruciale fu quella del 14 luglio 2021, in cui il progetto prese forma in via definitiva, articolandosi in dodici direttive e regolamenti. Una di queste è la tanto contestata “norme sulle emissioni di CO2 per autovetture e furgoni” che stabilisce la misura drastica di riduzione del 100% delle emissioni allo scappamento entro il 2035. In pratica, si celebrò la fine del motore a combustione interna e la richiesta a tutti i produttori di vendere veicoli solamente full electric, a partire dal 2035. Quindi è ormai chiaro che il futuro è l’elettrico. Ed è l’elettrico essenzialmente per due ragioni: la prima è legata alla necessità di ridurre le emissioni, in particolare nelle aree urbane; la seconda è legata al fatto che i veicoli elettrici tendenzialmente garantiscono alle case margini di profitto maggiori. Lungo la sua storia, l’industria automobilistica (come quella di tutti i grandi comparti tecnologicamente più avanzati) è stata caratterizzata essenzialmente da tre fenomeni: centralizzazione di capitale, concentrazione industriale, diminuzione del saggio di profitto. Tradotto in termini più semplici: i gruppi automobilistici sono sempre meno (perché ci sono state numerosissime fusioni e acquisizioni: a dicembre è stata annunciata la fusione tra Nissan, Honda e Mitsubishi), la loro dimensione è diventata estremamente grande, guadagnano sempre meno su ogni singola autovettura. Il passaggio all’elettrico presenta non pochi problemi: le auto elettriche costano tanto e non sono alla portata di tutti, cosa che contrasta con il modello in piedi fino a oggi, quello della motorizzazione di massa; hanno ancora relativamente poca autonomia, dunque non hanno le stesse prestazioni dei motori endotermici; per costruire le batterie servono diverse materie prime non facilissime da reperire; c’è bisogno di creare infrastrutture per la ricarica delle auto. L’Europa ha commesso un errore gravissimo nel sedersi al tavolo dell’auto elettrica senza essere pronta e ben equipaggiata. Quello a cui stiamo assistendo in queste settimane sul fronte dell’automotive ha tutta l’aria di essere una tempesta perfetta, qualcosa che raramente si è visto in passato e che ha dell’inspiegabile.

Da una parte c’è l’allarme tedesco, il fatto che in Germania ci sia Volkswagen che potrebbe licenziare migliaia di persone vuol dire che la situazione è grave, c’è di mezzo l’intera industria della componentistica europea. In UE c’è la situazione più difficile perché gli aiuti di Stato sono formalmente vietati. In realtà anche nel Vecchio Continente il pubblico ha finanziato le aziende del comparto, approfittando soprattutto delle deroghe seguite alla pandemia, ma non è niente di paragonabile a quanto fatto da Stati Uniti e Cina, senza contare che a causa della rigidissima normativa antitrust non ci sono potute essere aggregazioni in grado di creare dei “campioni continentali” capaci di competere adeguatamente a livello internazionale. Altro elemento centrale della crisi del comparto è la guerra commerciale attualmente in corso tra Cina, UE e USA, combattuta a colpi di dazi. Le aziende cinesi potenzialmente possono produrre auto elettriche e ibride relativamente a basso costo da poter vendere nel vecchio continente e negli Stati Uniti, ma sono bloccati dalle barriere doganali che i governi, in particolare nell’UE, motivano con il fatto che la loro capacità è stata resa possibile dagli enormi aiuti di stato ricevuti. La Cina ovviamente risponde con altri dazi che colpiscono in particolare le case europee, soprattutto quelle di alta gamma per le quali il mercato cinese è fondamentale. Pertanto, l’attuale è una situazione di stallo. La Cina è in crisi perché ha una sovraccapacità. Hanno la tecnologia, le fabbriche che possono produrre, hanno le catene di fornitura, hanno la disponibilità delle materie prime ma non hanno accesso ai mercati europeo e americano e il loro mercato domestico non basta.

Quindi non hanno a chi vendere, anche perché, in un momento storico di sostanziale stagnazione mondiale e salari fermi se non in decrescita reale, la bella favola del ricambio di automobili per tutti non si traduce in una reale domanda pagante. Per aggirare il problema delle barriere doganali i cinesi puntano a produrre direttamente in Europa, ma non è detto che gli europei lascino fare, oltre al fatto che ciò significa essenzialmente delocalizzare e questo crea un problema interno per Pechino in un momento in cui la disoccupazione, in particolare quella giovanile, comincia a farsi sentire. I produttori europei sono ancor di più in crisi perché arrancano da tutti i punti di vista. Puntano a rendersi il più autonomi possibili, soprattutto per ciò che concerne la produzione di batterie, per dipendere sempre meno dalla Cina, ma ci vuole tempo. Le case europee hanno capito che non possono mirare alla diffusione di massa e si orientano quindi alla gamma alta, quindi su minori volumi ma con margini di profitto maggiori. Gli incentivi sono una possibile soluzione per ravvivare il mercato, ma costano troppo, in particolare ora con il ritorno dei vincoli di bilancio del nuovo patto di stabilità. Inoltre, la situazione delle imprese europee è caratterizzata da una grande frammentazione interna al cosiddetto “mercato unico”. Che fare di fronte alla crisi? Quali sono i possibili scenari per uscire da questa impasse? Allentare i vincoli dell’azzeramento della CO2 alle emissioni entro il 2035, potrebbe essere una manovra tattica per dare un po’ di respiro ai produttori europei, ma avrebbe soprattutto un effetto benefico sul fronte delle resistenze dei consumatori. Ricordiamo che, complice la pandemia, sono più di 5 anni che il parco circolante subisce un invecchiamento aggiuntivo, raggiungendo una media di 12,3 anni in UE e in Italia. Questa non è una buona notizia: chi ha comprato un veicolo termico nel 2020 si aspetta che nel 2032 vi siano condizioni migliori per passare ad un veicolo elettrico (BEV, Battery Electric Vehicle), sia in termini di costi di acquisto che di servizi di ricarica, e sullo sviluppo delle infrastrutture nel nostro Paese non abbiamo esempi eccellenti. Una rimodulazione della scadenza del 2035 non avrebbe, invece, impatti significativamente migliorativi per la condizione delle case automobilistiche, le quali hanno già fatto programmi a lungo termine per il rimpiazzo delle vecchie catene di fornitura legate ai veicoli termici, con le nuove specifiche per i BEV, e da questi piani non possono tornare indietro. Inoltre, probabilmente, non c’è bisogno semplicemente di nuove auto ma di nuove idee.

Il modello della motorizzazione di massa, del trasporto privato, non è sostenibile da nessun punto di vista, è pericoloso, inefficiente, inquinante e va abbandonato in favore di una massiccia implementazione del trasporto pubblico, di forme di mobilità dolce dove possibile, e dello sharing. L’adozione di modelli di trasporto e mobilità innovativi, uniti alle nuove tecnologie legate all’elettrico e all’intelligenza artificiale, possono già oggi consentirci di ridurre e ottimizzare gli spostamenti, renderli sicuri e ridurre drasticamente le emissioni. Ovviamente un passaggio del genere può avvenire solo se guidato dal pubblico con politiche pensate nell’interesse generale e non dalle multinazionali dell’auto che invece hanno a cuore solo i propri profitti.

A chi spettano, dunque, i compiti a casa? Non vi sono dubbi: sono gli interlocutori pubblici che devono agire, annunciando una vera politica industriale europea per il settore automotive e non limitandosi a porre asticelle da superare, nella speranza che il mercato sia in grado di adeguarsi da solo. Come al solito, una buona politica industriale deve dare chiarezza di lungo periodo sia alla domanda che all’offerta: queste sono le condizioni di base per contenere l’incertezza del futuro e aiutare uno sviluppo armonico di tutte le parti in causa verso un mondo più sostenibile.