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Concretezza e trasparenza. Così la Fondazione Francesca Rava da venticinque anni raccoglie fondi per sostenere le emergenze umanitarie e le adozioni a distanza.

Un anniversario importante e tante celebrazioni per il 2025. La serata straordinaria al Teatro alla Scala di Milano con Tucidide. Atene contro Melo. Uno spettacolo in cui Alessandro Baricco, lo scorso 4 giugno, è salito sul palco come voce narrante affiancato dalle attrici Stefania Rocca e Valeria Solarino con un racconto accompagnato dall’orchestra dei 100 Cellos, diretti dal maestro Ernico Melozzi, insieme a Giovanni Sollima, violoncello solista, in una Scala gremita da tanta emozione. Diversi viaggi organizzati durante l’estate nelle case famiglia NPH-Nuestros Pequeños Hermanos in America Latina con tutti i volontari e i padrini delle adozioni a distanza che hanno il desiderio di conoscere i loro bambini, stare con loro e lavorare per loro in prima linea. II Duomo di Milano poi vedrà la sua eccezionale apertura per un concerto il 1ottobre, dove canteranno Amii Stewart, Paola Turci, Arisa insieme ai Cameristi della Scala. Così la Fondazione Francesca Rava – NPH Italia ETS vuole stare insieme ai più cari donatori, agli appassionati e ai tanti nuovi sostenitori. Eventi e occasioni, altrettanto importanti, anche e soprattutto per raccogliere fondi a sostegno dell’ospedale pediatrico NPH Saint Damien, realizzato e sostenuto dalla Fondazione e unico gratuito nella poverissima Haiti. Sono trascorsi 25 anni, un compleanno degno di menzione, che anche noi vogliamo onorare con un’intervista alla sua artefice, la Presidente Mariavittoria Rava.

Presidente, com’è nata la Fondazione Francesca Rava?

Da un grandissimo dolore, la perdita di mia sorella Francesca. Lei aveva 26 anni, io 28. È successo in un incidente d’auto dall’oggi al domani. Io sono avvocato, ero indirizzata in tutt’altra strada. Ero molto confusa. L’unica cosa che mi è venuta in mente, in quella notte di buio totale, è stata la promessa che ci eravamo fatte, vicendevolmente, da piccole. All’epoca c’erano tanti rapimenti, ne ascoltavamo le storie al telegiornale, eravamo spaventatissime anche se la nostra famiglia non credo proprio fosse presa di mira. Nel gioco spesso li prendevamo a prestito, dicendoci: “Io ti cercherò per sempre”. E così è stato. L’ho cercata negli incontri, l’ho cercata negli sguardi delle persone, l’ho cercata nelle parole e anche nelle coincidenze. Ho cominciato a fare l’unica cosa per me possibile per aiutare gli altri, cioè dare consulenze legali gratuite. Ho incontrato l’organizzazione NPH-Nuestros Pequeños Hermanos, presente in tutti i paesi del mondo e in Europa da oltre 70 anni, il secondo pezzo della nostra Fondazione Francesca Rava, che voleva aprire un ufficio di raccolta fondi in Italia. C’erano delle persone che, dopo aver preso accordi per seguire il progetto, si tirarono indietro e io dissi: “Vabbè intanto che trovate qualcun altro vi do una mano”. Solo che poi questa mano è diventata sempre più parte della mia vita. Mi innamorai della loro storia. Lavoravo tantissimo, la sera, i weekend, insieme a mia mamma e alle mie zie, che erano appena andate in pensione e sono state le prime volontarie. Dopo di che anche i colleghi di Francesca, lei lavorava in KPMG, una società di revisione, mi hanno aiutato. E con la piccola liquidazione ricevuta, che è proprio finita in Banco Desio, è nata la Fondazione Francesca Rava NPH Italia. Quindi è una grande coincidenza. Per questo invito sempre le persone a riflettere quando c’è una grande tragedia nella vita, perché può essere talvolta trasformata con amore in qualcosa di positivo.

Come vi siete mossi?

Con questi soldi abbiamo iniziato con le adozioni a distanza, uno strumento molto facile da comprendere, per prendere per mano i nostri bambini. Devo dire che le prime arrivate mi hanno procurato una grande emozione. Conoscerli, vederli partire con le loro cartelline, le foto, le storie e trovare loro qualcuno che li potesse salvare dalla strada, dargli da mangiare, curarli, era una gioia immensa. Poi adozione dopo adozione abbiamo avuto donatori che si sono appassionati, alcuni ci hanno aiutati in tutti gli altri progetti realizzati nel tempo. C’è voluto tanto impegno e sacrificio. Abbiamo avuto difficoltà per rispondere alle emergenze umanitarie, difficoltà anche nel raccogliere i fondi, fatiche sempre condivise anche con i volontari e tantissime sfide. La più grande? Quella che non so dire di no, da sempre. Quando c’è un bambino che sta morendo la mia risposta è sempre: “Certo lo aiutiamo”. Anche se al momento non abbiamo cassa. Se fosse tuo figlio diresti di no? Questa è la domanda che viene naturale farsi, almeno così succede a me. Così ho sempre cercato di dare a tutti la forza e il coraggio di credere, di gettare il cuore oltre l’ostacolo, con la responsabilità di un padre di famiglia non di quattro bambini, non di tre, non di due, ma di migliaia che magari sono attaccati all’ossigeno all’ospedale Saint Damien e se non ci sono soldi muoiono. Ho cercato di infondere speranza e positività. Alla fine questo forse i sostenitori, le persone, lo notano, sentono anche la serietà della nostra motivazione nel lavoro e quindi pure gli angeli custodi accorrono da lassù.

C’è un’esperienza che vuole raccontare?

Agli esordi della fondazione, mi aveva colpito questo bambino, era arrivato totalmente abbandonato perché i genitori erano morti in un incendio. Aveva gravissime ustioni, malformazioni, perso delle dita di una mano, la testa bruciata senza capelli e un piede tutto storto, che non gli permetteva di camminare. L’avevamo accolto in una nostra casa famiglia ad Haiti. Quando è diventato un pochino più grandicello, parlando con dei medici abbiamo pensato di fargli fare un intervento chirurgico di ricostruzione del piede in Italia, fondamentale per permettergli di camminare. Con una serie di difficoltà, siamo riusciti a fargli emettere il passaporto, a dargli un’identità e ad avere il visto. I primi giorni, in Italia, ha dormito a casa mia. Ha vissuto con la mia famiglia e i miei figli. Lui era assolutamente muto, non solo perché non parlava l’italiano, era spaventatissimo perché gli era rimasto il trauma dell’abbandono. Io ero preoccupata, non lo nego. Non potevamo lasciarlo mai solo, perché dopo l’operazione, per altro pesantissima, non riusciva neanche a muoversi con le stampelle per andare in bagno. Ho chiamato i volontari che si turnavano. C’era chi lo aiutava per i bisogni primari, chi suonava la chitarra, chi cantava, chi lo ha portato poi a fare un giro in auto sulle giostre. Si è sentito circondato d’affetto. Adesso è un ragazzo grande con la barba, si chiama Badner, cammina bene, sorride e ha imparato l’italiano. Da Haiti, dove è tornato, ci scrive sempre: “Come state?”. Quando si allarma per le situazioni in Italia, arriva il suo messaggio: “Vi voglio bene”. Si è messo a studiare, ha ritrovato la stima in se stesso. È uno dei tantissimi esempi di ragazzi, ma anche bambini, che ho visto arrivare da condizioni che noi neanche potremmo immaginare. Anche in Italia ci sono queste tragedie ma in questi paesi si moltiplicano. Poi però ho visto le rinascite. Quando sono scoraggiata, perché 25 anni sono tanti ma ogni giorno ho i miei momenti bui, magari vorrei aiutare un bambino e non c’è nessuno che ti fa una donazione, io non dormo di notte. E cosa faccio? Chiudo gli occhi e penso a Badner e ai tanti altri bambini che con tenacia siamo riusciti ad aiutare e a salvare, dicendomi: “Va bene ce la faremo anche questa volta”.

Può fare un bilancio dei 25 anni di attività?

Normalmente noi non ci guardiamo mai alle spalle, ma ci rimbocchiamo le maniche. Cerchiamo di rispondere con delle azioni. Comunque questo in effetti è un anniversario che ci obbliga un po’ a fare bilanci e devo dire, guardandomi indietro, che faccio fatica a credere a tutto quello che abbiamo concretizzato. Abbiamo inaugurato l’ospedale pediatrico Saint Damien in Haiti nel 2006, che salva 80 mila bambini ogni anno. Durante il terremoto, nel 2010, è diventato il centro dei soccorsi internazionali. Negli anni successivi abbiamo risposto a tutte le emergenze. Una tra tutte il terremoto in centro Italia, dove il giorno dopo siamo scesi e abbiamo aiutato a ricostruire otto scuole nel giro di un mese e mezzo, due, che ha permesso ai bambini di rimanere nei loro paesi. Un’altra cosa che mi è rimasta nel cuore è l’aiuto nel Mediterraneo perché quando ci fu il primo naufragio e il Papa gettò i fiori a tutti i morti, noi ci siamo alzati in piedi insieme alla Marina Militare e per cinque anni di fila, ininterrottamente, abbiamo mandato centinaia di medici, turni di volontariato, ginecologi, pediatri e ostetriche per dare soccorso ai bambini e alle donne. Senza contare che in Italia salviamo ogni anno 53mila bambini in povertà sanitaria. Adesso siamo molto impegnati sul tema dei giovani con Le Borse del Cuore e il progetto Palla al Centro per i giovani detenuti, quest’ultimo insieme al Ministero di Giustizia, perché vogliamo accompagnare i ragazzi fino a che riescono ad avere una buona educazione, a scoprire i loro talenti, a scegliere un lavoro e ad avviarsi a una vita indipendente nel loro paese. E lo facciamo insieme a un network di famiglie, scuole e aziende.

Di cosa andate più fieri?

Abbiamo fatto tantissimo in termini sia di numeri sia di impatto, è vero. Ma mi piace di più mettere l’accento non tanto sul quanto ma sul come. Con coerenza, onestà, trasparenza, seguendo la filosofia dell’empowerment, creando circoli virtuosi. Questa è la nostra forza. Ma lo abbiamo fatto insieme. Ripeto, insieme alle istituzioni, insieme a migliaia e migliaia di donatori, volontari, medici, infermieri, ingegneri, meccanici, imprenditori che hanno creduto nella Fondazione fin dal primo giorno. Come è successo con Banco Desio, con cui è nata un’alleanza, una fiducia reciproca e non ha mai smesso di sostenerci, a partire dalle primissime adozioni a distanza.