Da Federico Fellini a Pier Vittorio Tondelli una città magicamente sospesa tra ricordo e nostalgia
C’è un tempo che si fa luogo. E c’è un luogo che diventa memoria. Rimini è entrambe le cose. È una città che abita le pieghe più tenere del passato, una stagione dell’anima più che una semplice destinazione turistica. «Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo moto aperto del mare». Così Federico Fellini parlava della sua terra natale (20 gennaio 1920). Ed è proprio qui che ambientò alcune delle sue pellicole più amate, tra cui Amarcord (1973), che due anni dopo gli valse l’Oscar. Amarcord, «a m’arcord», io mi ricordo in dialetto romagnolo, non è solo un titolo, ma una dichiarazione poetica. Un invito a rivivere, rileggere, trasmettere. Perché certi ricordi non si accontentano di restare fermi: chiedono di essere riportati alla luce.
Anche Pier Vittorio Tondelli lo sapeva. Rimini, nel suo romanzo omonimo del 1985, non è semplicemente una cornice, ma una protagonista a tutti gli effetti. Un giornalista milanese viene mandato “laggiù” per un incarico editoriale, e da quel momento la città diventa un crocevia di esistenze, desideri e contraddizioni.
«Rimini? “Rimini?” Si alzò in piedi. “Pr-prepari le valigie. Andrà a passare due mesi laggiù.”
Disse “laggiù” come se si fosse trattato del Sud Africa. Mi sentii lusingato», si legge in un passaggio.
Pagina dopo pagina, il libro si trasforma in un’esplorazione sensibile e vibrante, una fotografia sociale e culturale di una città che sorprende chi è disposto a guardarla davvero.
E chi vi arriva oggi può ancora ritrovare – tra scorci e silenzi, tra piazze e spiagge – quel senso di incanto che appartiene al passato ma non è scomparso. Il Grand Hotel, costruito nel 1908 su progetto dell’architetto svizzero Paolito Somazzi, è uno dei posti dove quel tempo si è come cristallizzato.
Con i suoi saloni liberty e il giardino, è più di un albergo: è una cattedrale della memoria condivisa. Il grande regista vi tornava spesso, sempre nella stessa stanza – la 316 (a lui tuttora dedicata) – perché, diceva, «qui si sogna meglio». Proprio in occasione della sua apertura, all’inizio del Novecento, Rimini venne definita “l’Ostenda d’Italia”, in un manifesto pubblicitario firmato da Mario Borgoni. Il richiamo era alla raffinata località balneare belga affacciata sul Mare del Nord, ma bastarono pochi anni perché la città conquistasse una notorietà tale da non avere più bisogno di paragoni. Nel manifesto del 1922 di Marcello Dudovich, Rimini prende forma tra mare, vele, spiagge affollate e una giovane donna sorridente, moderna, sicura di sé, in costume rosso, mentre cavalca un bizzarro delfino dello stesso colore acceso. Sullo sfondo, la celebre “pagoda cinese” del 1870, una piattaforma in legno dove dame e signori – separati per genere – prendevano il sole o si preparavano a scendere in acqua. Più lontano ancora, il profilo delle montagne. Come dire: Rimini è Rimini, e non c’è bisogno di aggettivi. Non le mancava – e non le manca – nulla.
Era l’alba del turismo moderno, e questo approdo estivo si presentava al mondo con immagini di libertà spensierata, di vacanze desiderate, di un’eleganza lieve ma consapevole. E proprio Fellini, decenni dopo, suggellerà la fama internazionale della struttura alberghiera. Poco distante, un altro oggetto sospeso tra funzione e mito racconta il legame di Rimini con l’immagine e con la memoria. È la Ferrania Galileo, una gigantesca macchina fotografica installata nel 1948 da Elio Guerra, fotografo originario della vicina Pennabilli. Ispirata probabilmente al modello Condor II, allora molto in voga, doveva essere un semplice negozio d’appoggio per il lavoro stagionale in spiaggia.
Eppure divenne ben presto uno degli oggetti più fotografati della Riviera. Le turiste si mettevano in posa davanti al suo obiettivo fittizio, i fotografi e gli artisti la immortalavano come simbolo eccentrico di una città che ama ritrarsi. Nel tempo cambiò funzione – da laboratorio fotografico a punto informativo – ma non perse mai il suo potere evocativo. Oggi, con il suo aspetto surreale e familiare, è una metafora perfetta di questa sognante sponda romagnola, capace di generare immagini e restare impresse nella mente di chi l’attraversa. E vale lo stesso per i film. Sul lungomare, tra cabine, pini marittimi, bagni e il profumo di salsedine, ci si può imbattere in nomi familiari che non appartengono solo alla toponomastica, ma al lessico sentimentale della filmografia italiana: Luci del varietà, La voce della luna, Paisà, Ginger e Fred. Sono ventisei le pellicole diventate vie, segni visibili di un’eredità che questa perla del litorale ha deciso di non archiviare, ma di far vivere ogni giorno, all’aria aperta. Anche la stazione ferroviaria racconta la sua parte di memoria cinematografica. Compare - e viene in qualche modo riprodotta - in almeno quattro film, tra cui il commiato silenzioso dei Vitelloni, quando Moraldo (alter ego di Fellini) lascia la città all’alba, e in Roma, con il piccolo Federico che osserva i treni in partenza per la capitale. È una stazione che non porta solo corpi, ma frammenti d’identità, momenti in movimento.
Un altro luogo simbolo è Castel Sismondo, la fortezza quattrocentesca voluta da Sigismondo Pandolfo Malatesta, al cui progetto contribuì Filippo Brunelleschi. Le sue torri robuste ospitano parte del Fellini Museum diffuso, dove si entra in una dimensione in cui le sequenze diventano spazi da abitare. Una Silvia - interpretata da Anita Ekberg - gigante invita i visitatori ad attraversare uno schermo mentre viene proiettata la celebre scena della fontana di Trevi in La dolce vita: «Marcello, come here!». Poco più avanti si passeggia tra le luci del transatlantico Rex, si rivive la sfilata ecclesiastica di Roma, si ammirano gli abiti visionari de Il Casanova, per i quali Danilo Donati vinse l’Oscar. Una sala speciale accoglie il Libro dei sogni, l’oggetto forse più intimo e magico lasciatoci dal Maestro: custodisce pagine digitali tratte dai suoi taccuini onirici, scritti e disegnati tra il sonno e la veglia. A pochi minuti a piedi, si arriva al Cinema Fulgor, incastonato nel neoclassico Palazzo Valloni, riportato agli antichi splendori grazie all’allestimento di Dante Ferretti. È il luogo dove il piccolo Federico, seduto sulle ginocchia del padre, vedeva Maciste all’Inferno. Da qui, in pochi passi si raggiunge il Borgo San Giuliano, antico quartiere di pescatori, affacciato sul Marecchia e protetto dal Ponte di Tiberio. È un angolo segreto, fatto di case basse dai colori pastello, panni stesi e silenzi. Era il luogo dove Fellini e Giulietta Masina amavano passeggiare, mano nella mano. Si gira tra murales colorati e molti ripercorrono le scene de Le notti di Cabiria, La voce della luna, La strada. È difficile non provare un senso di malinconia dolce, quasi infantile, come se da una di quelle finestre potesse spuntare all’improvviso uno dei suoi personaggi, un clown, una donna dai tacchi consumati.
Ma Rimini non è soltanto sogno. È anche pietra e storia stratificata.
Fondata nel 268 a.C. con il nome di Ariminum, la città sorse nel punto in cui si incontravano due delle più importanti strade consolari dell’antica Roma: la via Flaminia, che da Roma arrivava fin qui, e la via Emilia, che da Rimini si spingeva fino a Piacenza. Ancora oggi, nel cuore urbano, l’Arco d’Augusto - eretto nel 27 a.C. per celebrare l’imperatore - si staglia imponente con la forza del passato, lunga oltre duemila anni. Da lì si raggiunge Piazza Tre Martiri, un tempo foro romano, oggi spazio della memoria e della vita quotidiana, dove si dice che Giulio Cesare pronunciò il celebre “Alea iacta est” (Il dato è tratto) prima di varcare il Rubicone. Ogni pietra sembra conservare un’eco. Più avanti, il Ponte di Tiberio - in pietra d’Istria e costruito tra il 14 e il 21 d.C. - collega ancora due sponde, attraversato da auto, biciclette e silenzi. Affacciarsi qui significa sfiorare l’eternità con lo sguardo.
Appena oltre, la Domus del Chirurgo, nel cuore di piazza Ferrari, svela il volto più intimo dell’antica Rimini: una casa romana con mosaici, affreschi e un corredo di oltre 150 strumenti chirurgici e farmaceutici in bronzo e ferro, tra i più completi al mondo. Poi c’è il Tempio Malatestiano, progettato da Leon Battista Alberti, che custodisce al suo interno il crocifisso di Giotto e l’affresco di Piero della Francesca con Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera. Ma se ha imparato a custodire la memoria, Rimini ha anche saputo guardare avanti, rinnovarsi, cambiare pelle. E lo ha fatto senza perdere la sua identità. Lo dimostra il progetto del Parco del Mare, una delle più importanti operazioni di rigenerazione urbana degli ultimi anni. Il lungomare si è trasformato in uno spazio continuo e fluido, dove l’asfalto lascia il posto a piste ciclabili, passeggiate in legno, aree verdi e spazi dedicati al benessere. Anche la mobilità racconta una filosofia diversa. La rete ciclabile si estende per oltre 135 chilometri, collegando il centro storico con il mare, i borghi dell’entroterra con le stazioni ferroviarie, le piazze con i parchi.
E un po’ ovunque anche qualcosa è cambiato, se certi profili sono svaniti nel tempo, la sostanza resta.
Nel suono del mare di notte. Nelle biciclette appoggiate ai muri. In una risata che si perde tra due ombrelloni. O in quella lieve nostalgia che non fa male, anzi scalda. Come certi ricordi che sanno di casa. Che fanno, appunto, Amarcord.
(Foto tratte da “Rimini. Di pietra nuvole e sale” di Pio Sbrighi e Gianni Donati)