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Carlo Cottarelli non ha dubbi: i grandi fenomeni di cambiamento economico sotto i nostri occhi (criptovalute, globalizzazione, indipendenza delle banche centrali, deregulation finanziaria, paradiso tecnologico, mito della crescita infinita, flat tax)  possono rivelarsi pericolosi miraggi. La posta in gioco è elevata. E se qualcosa dovesse andar storto a pagarne il prezzo saranno soprattutto le generazioni future

Sessantanove anni, segno zodiacale Leone, nato a Cremona (il sito biografieonline.it lo mette al primo posto in una lista di concittadini illustri quali, nell’ordine, Chiara Ferragni, Antonio Stradivari, Gianluca Vialli, Ugo Tognazzi, Antonio Cabrini), tifosissimo dell’Inter (suo il progetto, tramite Interspac, per dare alla squadra un azionariato diffuso), Carlo Cottarelli non avrebbe quasi bisogno di presentazioni. La politica e la televisione l’hanno infatti reso popolare anche al grande pubblico. Commissario straordinario per la spending review dall’ottobre del 2013 al novembre del 2014 (governi Letta e Renzi), premier incaricato, per appena quattro giorni, nel 2018 (memorabile il suo arrivo al Quirinale da Mattarella a piedi, con zainetto e trolley), eletto senatore nelle liste del Pd nel settembre del 2022, carica da cui come si sa si è dimesso nella primavera dell’anno scorso – caso più unico che raro data la proverbiale refrattarietà dei nostri parlamentari a mollare la poltrona vita natural durante – per incompatibilità con la linea della segretaria Elly Schlein.

Meno noto, ma non per questo meno brillante, è invece il background professionale. Nel suo curriculum troviamo incarichi in Bankitalia, all’Eni e al Fondo Monetario Internazionale, dove ha guidato dal 2008 al 2013 il dipartimento di Finanza pubblica. Poi c’è il Cottarelli professore: all’Università Cattolica e alla Bocconi. Altre soddisfazioni gli sono arrivate dall’attività di pubblicista. La sua penultima fatica è Chimere. Sogni e fallimenti dell’economia (Feltrinelli editore), presentato il 23 gennaio di quest’anno nella Sala Congressi della sede centrale del Banco di Desio nel corso di un dibattito al quale hanno partecipato, oltre all’autore, il presidente del Gruppo Banco di Desio Stefano Lado e Simone Bini Smaghi, vicedirettore generale ARCA Fondi Sgr in qualità di moderatori. Pungolato dalle domande suoi due sparring partner, Cottarelli ha passato in rassegna i punti di maggior interesse del libro, i cui diritti, dettaglio non secondario come è stato sottolineato dal presidente del Desio, vanno interamente all’Associazione Vidas per l’assistenza ai malati terminali.

Professore, prendiamo spunto dalla quarta di copertina di Chimere: perché grandi visioni riformiste si sono spesso rivelate, appunto, pericolose chimere?

Gli elementi innovatori che hanno caratterizzato lo scenario economico di questi ultimi decenni sono stati introdotti ed ideati, ovviamente in buona fede, con lo scopo di agevolare lo sviluppo, di portare il progresso e il benessere dei singoli e della società nel suo insieme a uno step ulteriore. Nel libro io concentro l’attenzione su sette innovazioni: le criptovalute (di cui il bitcoin, venuto al mondo nel 2008, è il capostipite) nate, in teoria, per liberare l’economia e la moneta dalla sudditanza delle banche centrali, che regolano la circolazione monetaria in senso stretto e di quelle commerciali, che gestiscono il sistema dei pagamenti. Il sogno libertario che ne sta alla base, ovvero rendere le transazioni più semplici e dirette (il mito del peer-to-peer per intenderci), ha dato il là alla speculazione più selvaggia. Certo, non tutti gli operatori della finanza sono dei santi immacolati ma fidarsi di un algoritmo può riservare sorprese ben più amare. Segnalo un altro elemento di rischio che potrebbe frenare in futuro la diffusione di questi strumenti: se si perde la chiave di accesso del conto, composto da 64 caratteri esadecimali, si perde tutto. E fino ad oggi sono, secondo stime attendibili, decine i miliardi di dollari finiti nel nulla.

Parlo poi dell’indipendenza delle banche centrali, il cui obiettivo sarebbe quello di mantenere la stabilità dei prezzi, intesa come basso tasso di inflazione annua, per convenzione il 2 per cento, tasso ritenuto sopportabile per il sentiment collettivo e per un sano funzionamento dell’economia. Tutto ciò per voltar finalmente pagina rispetto al far west inflazionistico degli anni Settanta e Ottanta, per non parlare del precedente più eclatante, la Germania di Weimar. Invece, a sorpresa, l’inflazione, un male che i tecnocrati delle banche centrali indipendenti sembravano aver definitivamente debellato, è riemersa prepotentemente negli ultimi due anni. Tutta colpa del Covid, che nel secondo semestre del 2020 fa crollare di colpo i Pil dei paesi avanzati. Una situazione, non lo si può negare, del tutto anomala, terra incognita per chiunque. Ma al Covid i tecnocrati hanno dato comunque una bella mano. Come avvenuto per la crisi finanziaria del 2008-09 le banche centrali pensarono che bastasse la politica del deficit per sostenere la situazione senza correre rischi inflattivi. Andate a rileggervi le dichiarazioni di Christine Lagarde (Bce) e Jerome Powell (Fed). Contrariamente alle aspettative, la spensierata politica espansionistica (tassi di interesse vicini allo zero o addirittura negativi) ha generato un volano di inflazione i cui effetti non si sono ancora esauriti. Terzo tema sul quale ho cercato di far luce: in questo caso il sogno è stato quello di ritenere che l’obiettivo di una maggior crescita dell’economia mondiale potesse essere raggiunto attraverso la liberalizzazione del sistema finanziario. Il risultato di tale liberalizzazione, iniziata suppergiù negli anni Settanta, è stata la crescita smisurata del settore finanziario, il cui culmine è rappresentato, in negativo, dal fallimento della Lehman Brothers. Non che la finanziarizzazione dell’economia non abbia avuto effetti positivi, si capisce. Comprensibilmente si riteneva che un sistema finanziario liberalizzato avrebbe potuto coniugare una maggiore disponibilità e una maggiore allocazione del credito. Ma, presto o tardi, gli effetti collaterali si sono fatti sentire, soprattutto se gli strumenti di cui la finanza ha potuto disporre hanno raggiunto un eccessivo livello di complessità (vedi derivati e subprime vari, termini entrati poi nel lessico familiare), di opacità e in buona sostanza di rischio incontrollabile. E oggi? Siamo sicuri che le misure introdotte dopo il 2008 ci rendano immuni da altri shock? Casi recenti come quelli della Silicon Valley Bank, della Signature Bank, del Credit Suisse e della First Republic Bank smorzano, è il meno che si possa dire, l’ottimismo. Fin qui, come si vede, affronto argomenti che potremmo definire “tecnici”, per certi aspetti lontani dalla sensibilità o comprensione comune.

Ma quello della globalizzazione ha invece effetti che interessano e toccano direttamente la maggior parte della gente. Porrei come spartiacque l’11 dicembre del 2001, data di ingresso della Cina nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Dal 2002 al 2007 il volume delle esportazioni cinesi di beni e servizi si quadruplica, con tassi di crescita annuali tra il 20 e il 25 per cento. Contestualmente si dà il via alle delocalizzazioni, col relativo fenomeno delle supply chains o value chains, cioè la filiera necessaria alla manifattura di un singolo prodotto. Pensate a un aereo Boeing, fatto con componenti che arrivano da 56 posti sparsi per il mondo. Da più parti si è sostenuto l’importanza del commercio internazionale senza barriere per implementare l’efficienza e la crescita economica. Una visione che annovera tra i suoi sponsor svariate organizzazioni internazionali: Wto, ovviamente, ma poi anche il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Dall’alto dei cieli, David Ricardo e Adam Smith avrebbero dato il loro consenso senza se e senza ma. Con buone ragioni, dato che l’opposto della globalizzazione, cioè l’autarchia, non pare essere una valida alternativa. Ma purtroppo un mondo globalizzato implica anche aspetti negativi. Nei paesi avanzati, come contraccolpo, i lavoratori non specializzati e piano piano anche quelli specializzati hanno subito la concorrenza dei paesi ex Terzo Mondo, perdendo potere di negoziazione contrattuale, col risultato di arricchire sempre più chi ricco lo è già e impoverire chi non sta in cima alla piramide. Questo crescente squilibrio nella distribuzione del reddito suscita preoccupazioni da differenti punti di vista. Crea tensioni a livello sociale e fomenta il populismo. E diversi studi hanno evidenziato che economie in cui la distribuzione del reddito è più diseguale tendono anche a crescere di meno. In questo scenario, va detto, un ruolo lo giocano i miglioramenti tecnologici ma ritengo che il peso preponderante sia da addebitare alla liberalizzazione della produzione e del commercio. Questa aumenta l’offerta del lavoro disponibile: se centinaia di milioni di contadini cinesi si spostano dalle campagne alle città e cominciano a produrre gli stessi beni che erano prima prodotti dai lavoratori occidentali, se le imprese occidentali chiudono e vanno a ricollocarsi in Cina, se i nuovi investimenti si spostano dall’America e dall’Europa in Asia, i lavoratori dei paesi avanzati perderanno il lavoro o saranno costretti ad accettare una minore retribuzione.

Altro aspetto che non può essere messo in secondo piano è l’alterazione degli equilibri geopolitici derivanti dalla globalizzazione. Paesi emergenti fino all’altro ieri come la Cina hanno pian piano utilizzato le forniture di tecnologie sofisticate ricevute dall’esterno per competere prima economicamente e poi militarmente con le controparti. Tuttavia una deglobalizzazione che riporti indietro le lancette dell’orologio è improbabile. Sì, certo, si punterà sul near-shoring e sul friend-shoring, a scapito delle importazioni da paesi lontani ed esposti a rischi geopolitici e occorrerà preoccuparsi, più che in passato, dei settori della società che maggiormente subiscono i costi della concorrenza dal lavoro estero, attraverso strumenti di sostegno e di riqualificazione professionale. Ma è improbabile che il mondo torni a com’era quarant’anni fa, semplicemente perché rinunciare ai vantaggi della globalizzazione sarebbe troppo costoso. A meno che non intervengano eventi bellici di portata mondiale. 

Lei dedica poi un capitolo al trend della riduzione delle imposte, percentualmente parlando, ai ceti più abbienti, fenomeno ormai in atto da decenni e che ha avuto i suoi paladini in Ronald Reagan e Margaret Thatcher. È la cosiddetta economia del “gocciolamento” (trickle down economics), in parole povere l’idea che far pagare meno tasse a chi ha di più incentivi produzione e consumi “a pioggia”, con benefici per l’intera collettività. Un sistema tra l’altro, in teoria, autofinanziantesi quindi vantaggioso per lo Stato. Da noi l’idea è nota come flat tax. Par di capire che anche qui non è tutto oro quel che luccica: la riduzione della progressività fiscale creerebbe alla lunga una forbice sempre più ampia nella scala sociale. Sono però questioni tecniche sulle quali anche gli addetti ai lavori, figuriamoci i profani, hanno opinioni contrastanti. Invece, cambiando tema, è sorprendente e spiazzante la sua posizione in materia di ICT (Information and Communication Technologies). Il titolo della sezione ad esse riservata dice tutto: Il mito della tecnologia dell’informazione e il mistero della bassa crescita della produttività.

Negli ultimi due secoli, sono tanti gli esponenti del pensiero economico e politico che hanno espresso una fede profonda nel continuo sviluppo scientifico e tecnologico. In realtà negli ultimi decenni la crescita nei paesi diciamo all’avanguardia, quelli che l’innovazione la creano e non solamente ne godono gli effetti, si è sempre più attenuata. C’è in questo un’analogia con un’altra fondamentale innovazione del passato relativa alla più rapida disseminazione di informazioni e conoscenze, ossia l’invenzione da parte di Gutenberg della stampa a caratteri mobili verso la metà del ‘400. Ebbene, diversi studi hanno concluso che essa abbia avuto effetti modesti sulla produttività. Quali sono, tornando all’attualità, le ragioni di questo rallentamento della crescita? Senza entrare troppo nel dettaglio, si può dire che i recenti e per certi versi stupefacenti progressi tecnologici sono di gran lunga inferiori, per impatto sulla vita quotidiana, a quelli del passato.

Sintetizzo: la prima rivoluzione è quella avvenuta tra il 1750 e il 1830, che regalò all’umanità i motori a vapore, le macchine per la tessitura del cotone e le ferrovie. La seconda rivoluzione interessa il periodo 1870-1900 (onde elettromagnetiche, utilizzo dell’elettricità a livello industriale e familiare, motore a combustione interna, estensione delle reti idriche, sviluppo della chimica). Da qui un insieme di invenzioni che hanno profondamente cambiato la vita dell’uomo. Ascensori, macchine utensili, elettrodomestici, radio e televisori, telefoni, reti fognarie, biciclette, motociclette, automobili, camion e aerei. E poi, poco oltre, la possibilità di alterare l’atomo e di sviluppare l’energia nucleare. Bene, questa fase si è chiusa grossomodo nel 1970. La terza rivoluzione industriale è quella dei computer mainframe, dei personal computer, della rete internet, dello smartphone e dell’intelligenza artificiale. Tutti, o quasi tutti, gli studiosi sono concordi nel ritenere imparagonabile l’effetto delle prime due rivoluzioni rispetto alla terza – quella che vede le ICT prepotentemente sotto i riflettori –, la cui minor forza è confermata anche dal generale rallentamento del progresso scientifico in senso lato. Parlando di aspettative deluse, a livello più personale, sono sempre stato colpito da come, nella cultura popolare degli ultimi decenni, il progresso tecnologico fosse spesso visto avanzare a una velocità molto più elevata di quanto poi sia accaduto. Il film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio apparve nel 1968. Prevedeva che nel 2001 l’umanità, guidata da computer intelligenti, avrebbe avuto basi sulla Luna per raggiungere poi Giove e da lì scorrazzare nello spazio infinito. Mi pare invece che nel 2024 siamo ancora indietro rispetto a quanto immaginato nel libro di Arthur Clark, che è del 1948, da cui Kubrick ha preso spunto per il suo film.

Insomma, parafrasando Schopenhauer lei potrebbe dire di se stesso più o meno questo: “L’economia è una cosa spiacevole e io mi sono proposto di passare la mia vita a rifletterci sopra”.

Cito spesso e volentieri Giacomo Leopardi, d’accordo, ma non voglio che si abbia di me l’impressione di un profeta di sventure. Direi che tutte le innovazioni che elenco nel saggio hanno alla base una forte componente utopistica. Esiste un utopismo “laico” non meno insidioso dei millenarismi politico-filosofici che, affidandosi alla violenza (Marx definiva la violenza “potenza economica”) hanno segnato il XX secolo. Come questi ultimi, anch’essi tuttavia coltivano il dogma delle “magnifiche sorti e progressive”. Riporto vari esempi di questa spensierata tendenza: John Maynard Keynes («arrivo alla conclusione che il problema economico potrebbe essere risolto, o almeno essere vicino alla soluzione, entro cento anni. Questo significa che il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana»); Guido Carli («io parto dal presupposto che nel periodo lungo, ossia nell’arco di due o tre decenni, l’umanità troverà delle soluzioni per tutte queste difficoltà e il problema non sarà più l’economia, ma la pace dello spirito»); Thomas Friedman, autore de Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo (4 milioni e rotti di copie vendute nel mondo) e prima di lui Francis Fukuyama col suo fortunatissimo e iconico La fine della storia e l’ultimo uomo. Tutti e quattro, pur con le dovute differenze di tempo e di luogo, sono stati l’espressione di una fiducia in un futuro che si sarebbe autoregolato in positivo grazie ai meccanismi intrinseci del mercato.

Ma la sperata palingenesi non si è verificata. Qualcosa è andato storto e nessuno dei sette sogni che dovevano cambiare il mondo si è realizzato. In particolare l’ultimo sogno preso in esame, quello di una crescita senza fine e in equilibrio con il pianeta in cui viviamo, temo possa riservarci un brusco risveglio. E la ricetta della decrescita felice, sostenuta ad esempio da Serge Latouche, non pare essere una strada percorribile in un’epoca in cui i tre quarti del mondo ha come obiettivo primario il miglioramento del proprio standard di vita più che l’ecologia. Con ciò, lo ripeto qua e là nell’introduzione a Chimere, è forse ancora troppo presto per emettere sentenze definitive. Mi si permetta di citare Mogol: cosa succederà lo scopriremo solo vivendo.