È arrivato il momento di dire addio a una concorrenza aperta, fondata su istituzioni multilaterali e regole condivise? Con il secondo mandato trumpiano, tornano di moda i dazi. Ma, a parole, vincere una guerra commerciale è facile. Lo è meno quando si scopre che i “nemici” possono rispondere con le stesse armi.
La globalizzazione ha trasformato profondamente l’economia mondiale, favorendo una crescita vertiginosa dei flussi di beni e persone tra i Paesi. Ha però avuto anche conseguenze negative: i flussi migratori e l’aumento delle diseguaglianze dei redditi hanno portato a una crescita dei movimenti populisti e isolazionisti, nonché sono alla base della vittoria elettorale di Donald Trump. Gli Stati Uniti hanno un’economia molto più chiusa rispetto alla media degli altri Paesi. A partire dai primi anni ‘80 del ‘900, fino ad arrivare agli anni 2000, hanno registrato considerevoli disavanzi commerciali. Come l’identità contabile del reddito nazionale richiede, si è dovuto finanziare questo disavanzo con l’indebitamento estero, per cui gli Usa sono passati da essere il più grande creditore del mondo al più grande debitore. Per illustrare da cosa può essere stato generato in ultima analisi tale deficit, è utile prendere in considerazione il risparmio e l’investimento statunitensi. Il disavanzo si è manifestato in coincidenza con una accentuata diminuzione del risparmio nazionale agli inizi degli anni ’80, che può essere spiegata da una marcata politica fiscale espansionistica del presidente Reagan. Il governo federale ha ridotto di molto le tasse sul reddito delle persone fisiche, e contestualmente ha mantenuto pressoché inalterata la spesa pubblica, facendo registrare un disavanzo nel bilancio statale. Dal punto di vista dell’ammontare, questi disavanzi sono stati tra i più alti che si siano mai registrati in periodi di pace e prosperità. Per quanto detto in precedenza, essendosi il disavanzo del governo federale e il disavanzo della bilancia commerciale manifestatisi quasi contemporaneamente, sono stati chiamati “disavanzi gemelli”. La situazione ha cominciato a cambiare agli inizi degli anni ’90: nonostante gli USA avessero deciso di ridurre il proprio disavanzo e nonostante le entrate pubbliche fossero aumentate anche a conseguenza di un aumento di produttività dell’industria americana, l’aumento del risparmio nazionale non ha collimato con una diminuzione del disavanzo commerciale. Questo perché l’aumento del risparmio è stato accompagnato da un aumento degli investimenti interni dovuti alla nascita delle tecnologie informatiche; il risultato di ciò è stato che l’aumento del risparmio, nonostante tendesse a produrre un avanzo commerciale, è stato controbilanciato da un’esplosione dell’investimento interno che ne ha ridotto gli effetti.
Fin dal marzo 2017, durante il suo primo mandato presidenziale ,Trump firmò un ordine esecutivo per individuare le cause del crescente deficit commerciale degli Stati Uniti che la nuova amministrazione considerava una priorità da affrontare. Egli accusava apertamente gli altri Paesi, in particolare la Cina, di adottare pratiche commerciali scorrette, applicare tariffe eccessive e imporre barriere protezionistiche. Con il suo secondo mandato, ha ulteriormente radicalizzato la propria strategia commerciale, annunciando per il 2025 un dazio universale del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti e tariffe ancora più elevate per 57 partner commerciali (anche se il 9 aprile il presidente ha annunciato sui social una sospensione di 90 giorni dell’applicazione della maggior parte dei dazi, con l’eccezione di quelli imposti alla Cina, per concedere ai partner commerciali un margine di negoziazione). Per Trump e il suo entourage, il deficit commerciale rappresenta una patologia da estirpare. Questa visione mercantilistica interpreta ogni squilibrio della bilancia commerciale come una perdita netta di risparmio e di posti di lavoro per la nazione. Normalmente, entrambi gli squilibri, quello dei conti pubblici e della bilancia commerciale, richiederebbero una sola terapia per essere sanati: una manovra fiscale restrittiva che, riducendo il disavanzo interno, contribuirebbe anche a riequilibrare il saldo estero. Il governo statunitense, al contrario, ha scelto di affrontare gli squilibri facendo ricadere i costi dell’aggiustamento sugli altri Paesi attraverso l’imposizione generalizzata di dazi e dando inizio a una possibile guerra commerciale.
Ma come funziona la guerra commerciale? Per capirlo bisogna prima comprendere che cos’è la pace commerciale. Non si tratta di una situazione di paradisiaca libertà in cui tutti i paesi fanno quello che vogliono. Si tratta, invece, di una situazione estremamente regolamentata, in cui gli Stati si attengono ad un rigido protocollo condiviso. I comportamenti accettabili e i colpi proibiti sono definiti in accordi internazionali, che costituiscono una sorta di catalogo da rispettare sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). I dazi diventano invece uno strumento di guerra quando un paese li impone unilateralmente al di fuori del procedimento di risoluzione delle controversie previste dall’Omc, indipendentemente dai motivi alla base della loro introduzione e della loro quantificazione. Quando questo avviene, si configura un’aggressione e, potremmo dire, una dichiarazione di guerra commerciale.
Che cosa potrebbe accadere con l’applicazione dei dazi universali di Trump? Gli scenari sono diversi. Il primo è quello in cui le imprese americane tornano a produrre negli Stati Uniti come conseguenza dei dazi che rendono le importazioni più care. Se gli altri Paesi non reagissero immediatamente, potrebbe esserci un iniziale miglioramento del saldo commerciale. Tuttavia, presto si manifesterebbero effetti negativi: crescita dei costi produttivi per le imprese, aumento dell’inflazione, innalzamento dei tassi d’interesse da parte della Fed per contrastare l’inflazione stessa, e quindi una probabile recessione economica. Una sorta di “stagflazione da dazi”, una situazione estremamente complicata da gestire politicamente ed economicamente. Il secondo scenario vede invece una reazione immediata dei partner commerciali degli Stati Uniti, che potrebbero imporre a loro volta dazi ritorsivi. La conseguenza sarebbe immediata: una contrazione significativa delle esportazioni americane, il peggioramento del deficit commerciale, e probabilmente anche una svalutazione reale del dollaro associata a una crescente incertezza sui mercati finanziari e reali. Questo scenario non porterebbe solo a un danno economico immediato, ma spingerebbe le altre nazioni a cercare nuove alleanze commerciali che escludano gli Stati Uniti. In tale contesto, la Cina potrebbe emergere come nuovo baricentro economico globale, sfruttando l’incertezza generata dalla politica protezionistica americana per consolidare la propria influenza globale. Il terzo scenario ipotizza che le imprese americane non rientrino rapidamente negli Stati Uniti, poiché spostare intere catene produttive è costoso e complesso. Questo è per esempio il caso della Apple, che vedrebbe almeno raddoppiare il prezzo dei propri dispositivi tecnologici qualora decidesse di riportare la produzione negli Stati Uniti. In questo scenario, l’imposizione dei dazi provocherebbe semplicemente un aumento dei prezzi interni, penalizzando i consumatori americani senza migliorare il saldo commerciale. La reazione degli altri Paesi sarebbe comunque ostile, generando un doppio effetto negativo: recessione interna e isolamento internazionale degli Stati Uniti.
Se questi sono gli scenari ipotizzabili, e tutti hanno aspetti problematici, viene naturale domandarsi chi o che cosa possa frenare la nuova guerra commerciale. In questo senso, sono tre le variabili economico-finanziarie cruciali. Durante la campagna per la rielezione, il tycoon ha cercato di capitalizzare il malcontento degli elettori per i forti aumenti dei prezzi degli ultimi anni. Ora che è tornato nello studio ovale, se per un qualsiasi motivo l’inflazione dovesse riaffacciarsi, il Presidente potrebbe essere più prudente sul rialzo dei dazi, proprio perché avrebbero un effetto inflazionistico aggiuntivo. L’altro elemento da non sottovalutare è l’effetto che la nuova fase della guerra commerciale avrà sugli indici azionari. Le borse sono volubili. E nel bene o nel male, Trump li considera un barometro della vitalità economica. Il Presidente non ha molte leve a disposizione per influenzarli: una delle poche è per l’appunto ritardare o ridimensionare la politica dei dazi. Inoltre, una crescita dell’inflazione spinta dalle nuove politiche indurrebbe la Federal Reserve a aumentare i tassi di riferimento, con conseguenze negative sui cittadini notoriamente molto indebitati, sulla congiuntura e sui conti pubblici, in ragione dei maggiori interessi sul debito. Infine, nel 2026 si terranno le elezioni di medio termine. Trump non vuole rendersi impopolare e non può permettersi che le sue politiche facciano perdere ai repubblicani il controllo della Camera dei rappresentanti e del Senato.
In questo quadro, il rischio più concreto per gli Stati Uniti non è solo quello di un’inefficace politica commerciale, ma quello di un più profondo cambiamento degli equilibri mondiali, con la leadership economica globale che potrebbe rapidamente passare ad altre potenze, prima tra tutte la Cina. La strategia tariffaria aggressiva di Trump rischia, dunque, di minare non solo gli obiettivi di breve termine della politica economica statunitense, ma anche i fondamenti stessi della posizione globale del Paese, accelerando il declino della centralità del dollaro e la frammentazione dell’attuale ordine economico mondiale. Nella Repubblica di Platone, i protagonisti Socrate e Glaucone discutono dei vantaggi che per una città-stato hanno la divisione e la specializzazione del lavoro dei suoi cittadini secondo le loro attitudini. Tuttavia, affinché questa specializzazione sia possibile, è necessario non chiudersi in sé stessi. La chiusura protezionistica con l’estero avrebbe infatti conseguenze nefaste, a meno che non si voglia lasciare insoddisfatti i bisogni dei cittadini: «Dobbiamo pertanto ritagliarci una fetta del paese confinante, se vogliamo avere terra sufficiente da pascolare e arare, e quelli devono fare altrettanto col nostro territorio». Socrate: «E poi faremo la guerra, Glaucone? O come andrà a finire?». Glaucone: «Andrà a finire così». A distanza di millenni tutto suona tragicamente attuale.
"La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi" - (Carl von Clausewitz, generale prussiano)