1918 l’anno della Vittoria

Sul fronte italiano negli ultimi mesi della Grande Guerra si segnala una discontinuità rispetto al trend precedente, cioè una sanguinosa campagna militare condotta nelle valli alpine, poco popolate e difficili da raggiungere da parte della stampa.

Il presidente del Consiglio Vittorio E. Orlando fece ampio ricorso alla censura per garantire al governo un enorme potere anche in campo economico, pur senza coercizioni nei confronti dei vari gruppi parlamentari. Essi erano consapevoli del rischio che si correva sul Piave, dove le armate e le divisioni italiane erano inferiori a quelle nemiche, per numero e armamento, anche mettendo nel conto le unità pazientemente ricostituite con i circa 300 mila “sbandati” dopo la rotta di Caporetto (24 ottobre 1917), che furono raccolti in Emilia.

In quei giorni di enorme confusione era cresciuto in modo esponenziale il numero delle famiglie in fuga dal Friuli e dal Veneto settentrionale. Fin dal 29 ottobre vennero censurati gli articoli sullo sfollamento della popolazione dalle zone perdute dall’Italia; venivano bianchettati anche i numeri dei profughi in viaggio sui treni speciali. Treviso, punto di raccolta da dove sarebbero stati smistati a Milano e a Bologna, fu abbandonata dalle autorità, che si misero in salvo con le famiglie lasciando sul posto funzionari di basso livello.

Nel corso del 1918 Orlando ottenne da Gran Bretagna e Francia truppe, armamenti e viveri. La contropartita fu la disponibilità a rivedere le clausole del Patto di Londra del 1915, che era stato reso pubblico da Lenin onde dimostrare le mire imperialistiche degli Alleati. Orlando dichiarò che l’Italia non aveva secondi fini, e per dimostrarlo sostenne le iniziative poste in atto a Londra e a Roma dai comitati “spontanei” di esuli delle nazionalità oppresse dall’Impero Austroungarico, molto pubblicizzate dalla stampa internazionale, e in particolare dal Corriere della Sera. Il ministro degli Esteri Sydney Sonnino, firmatario del Patto, non stette al gioco: gli stavano a cuore, anche per ragioni familiari, gli interessi degli italiani in Dalmazia, per non parlare dell’impegno profuso dall’Italia in Albania a sostegno del blocco alleato sul canale d’Otranto.

Tali contraddizioni nella politica estera condizionarono negativamente le trattative del ministro del Tesoro, Francesco S. Nitti, per ottenere prestiti dagli Stati Uniti.

L’8 novembre 1917 a Peschiera il Re, che ai sensi dello Statuto Albertino era il comandante in capo dell’esercito, aveva ottenuto dagli Alleati il consenso su tre punti rimasti in sospeso il giorno prima alla conferenza di Rapallo: a) lui, e non il cugino Amedeo d’Aosta (comandante della III Armata), avrebbe condotto la riscossa nazionale; b) il comando operativo sarebbe spettato a un generale di origine meridionale, Armando Diaz, il cui nominativo gli era stato proposto dal nuovo ministro della Guerra, Vittorio Luigi Alfieri; c) i generali Gaetano Giardino e Pietro Badoglio venivano nominati vice comandanti, pur essendo sino a quel momento gerarchicamente superiori a Diaz.

Questa soluzione non aveva convinto Orlando. Dalla fine di gennaio del 1918, quando la linea del Piave si era dimostrata invalicabile da parte del nemico, costretto a riorganizzare le proprie linee di rifornimento (l’esercito austriaco poteva contare su reparti motivati, ma rallentati  dall’onnipresente burocrazia e dalla scarsità di riserve di cibo e munizioni) il presidente del Consiglio decise di puntare su Badoglio, nonostante fosse anch’egli tra i generali inquisiti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta su Caporetto. Giardino venne inviato al Consiglio militare interalleato di Parigi, in sostituzione dell’inquisito Cadorna; Alfieri in marzo protestò invano contro il trattamento insolitamente severo adottato dai magistrati romani nei confronti dei dirigenti della Cascami Seta, accusati di aver fatto pervenire nel 1916 al nemico, tramite la neutrale Svizzera, materiale bellico; egli fu costretto alle dimissioni, e sostituito da Vittorio Zupelli, già ministro della Guerra sino all’aprile 1916, quando Cadorna aveva ottenuto dal Re la sua destituzione. Alfieri aveva legami anche familiari con i grandi industriali serici lombardi, ma forse non era il vero obiettivo della violenta campagna “patriottica” montata contro la Cascami Seta: infatti tra i primi dirigenti arrestati, il 25 febbraio, figurava il vecchio Francesco Gnecchi, uno tra i più importanti numismatici d’Europa, ben noto e apprezzato dal Re, anch’egli grande collezionista di monete. La Procura di Roma si era mossa a seguito delle accuse presentate alla Camera dall’on. Gianbattista Pirolini, longa manus del massone Eugenio Chiesa, che era entrato nel governo Orlando quale “Commissario all’Aviazione”: se fosse stato “Ministro” avrebbe dovuto giurare nelle mani del Re; un danno d’immagine per il leader dei Repubblicani. Il sostegno di Chiesa e degli ambienti industriali a lui legati consentì al governo di liberarsi, il 14 maggio, di un altro personaggio scomodo, il ministro alle Munizioni Alfredo Dallolio: Nitti voleva lanciare il messaggio che lo Stato, impegnato nello sforzo supremo, non era più disposto a pagare le forniture belliche “a pié di lista”. Tuttavia Orlando non poteva tirare troppo la corda con gli industriali, quindi decise di creare un nuovo dicastero e di promuovere da sottosegretario a Ministro agli Approvvigionamenti il noto cotoniero lombardo Silvio Crespi (22 maggio). Quest’ultimo però non riuscì a ottenere da Zupelli, che aveva assunto l’interim, il controllo sulle Munizioni. In pratica dopo tale giro di rimpasti non si ebbe traccia dei risparmi auspicati da Nitti. Il quale, pressato dal costante incremento delle spese militari, non poté far altro che ricorrere a nuovi prestiti, forieri di spinte inflattive e malessere sociale. In molte città del Regno si riscontrava la penuria dei generi alimentari (si faceva sentire la prolungata assenza dai campi dei contadini-soldati) mentre le fabbriche lavoravano a pieno ritmo solo per la produzione bellica.

Dal Solstizio a Vittorio Veneto

Giardino si dimise dal Consiglio in primavera e ottenne la guida della 4ª Armata, stanziata nella zona del Monte Grappa, tra il Piave e il Brenta. Anche Alfieri chiese di tornare al servizio attivo; in aprile gli fu affidato un semplice Corpo d’Armata, il 26°.

Il giovane imperatore Carlo d’Asburgo aveva avviato trattative segrete con i francesi per una pace separata, ma a tarda primavera a Vienna si riteneva indispensabile un’offensiva su larga scala, per togliere finalmente di mezzo gli italiani.

Dalla Val d’Astico all’Adriatico il fronte era di 140 km; 41 divisioni italiane dovevano fronteggiarne 50. Anche il numero delle bocche da fuoco era leggermente inferiore (5100 pezzi contro 5470); gli austriaci erano superiori per le mitragliatrici, armi micidiali ma efficaci soprattutto per chi difende.

A causa delle rivalità tra i comandanti, le forze attaccanti diedero il via a tre distinte operazioni, fatalmente sfasate nei tempi: il 15 giugno iniziò verso il Tonale l’offensiva “Valanga”; fu poi la volta dell’operazione “Albrecht”, contro il Trevigiano, e della “Radetzky”, che investì l’Altipiano d’Asiago. Le artiglierie italiane seppero controbattere subito, e il gas asfissiante fu disperso dal vento. Il Piave in piena rese impossibile il passaggio in quasi tutti i punti prestabiliti, quindi il 23 giugno i comandi austriaci, vista l’impossibilità di mantenere le ultime teste di ponte e data l’estrema penuria di cibo, di munizioni e di riserve, ordinarono la ritirata sulla riva sinistra del Piave.

Nelle file italiane le perdite furono ingenti, specie tra le truppe in prima linea sul Grappa, costrette a tenere le posizioni per giorni senza rinforzi. Inoltre il gen. Giuseppe Pennella, capo dell’8ª Armata, aveva sottovalutato l’importanza strategica del Montello, dove fu necessario l’assalto alla baionetta contro le mitragliatrici austriache, e dove cadde l’asso italiano Francesco Baracca. Pennella venne rimosso e sostituito da Enrico Caviglia, il quale ottenne per l‘8ª Armata un maggior numero di uomini e cannoni, nonché voce in capitolo per l’offensiva finale.

La corte di Vienna fece ricadere l’insuccesso soprattutto sul feldmaresciallo Franz Conrad; le truppe in Italia furono affidate principalmente al feldmaresciallo Svetozar Borojevic, un soldato fedele all’Impero, ma intimamente convinto dell’inevitabile sconfitta.

Dato il rapido evolversi della situazione politico-militare, per tutta l’estate Orlando, che già pensava ai nuovi assetti europei, invitò Diaz ad attaccare, mobilitando anche la stampa. Il comandante dovette accettare il piano elaborato dal piemontese Ugo Cavallero: le teste di ponte sul medio corso del Piave sarebbero state realizzate, previo bombardamento, dall’8ªArmata, ai cui fianchi operavano le divisioni francesi del gen. César Graziani (12ª Armata) a valle, e gli inglesi di Federik Cavan (12ª Armata); sul Grappa Giardino avrebbe avviato l’azione con un importante diversivo. Obiettivo primario era la cittadina di Vittorio Veneto. A causa delle esitazioni di Diaz, che sperava di poter impiegare “veri” soldati americani, e della decisione di Orlando di dar vita a un battaglione cecoslovacco (composto da disertori, e mai inserito nello schieramento) l’attacco fu procrastinato sino al 24 ottobre, nella stagione delle piogge e delle piene autunnali; esse costrinsero a tentare il passaggio nei pochi punti accessibili, battuti dagli 835 cannoni della 6ª Armata austriaca.

Sul Grappa il gruppo armate “Belluno” anziché sfaldarsi iniziò a contrattaccare. Per tre giorni sembrò di essere ritornati alle sanguinose “spallate” sull’Isonzo, e la 4ª Armata subì gravi perdite. Come in giugno le riserve affluirono in ritardo, ma per fortuna gli uomini di Cavan impedirono l’aggiramento austriaco. Il 29 ottobre Caviglia ordinò di utilizzare le passerelle che erano state poste sul Piave dai francesi, i quali avevano subìto minor pressione, essendosi trovati nella zona di raccordo tra la 6ª e la 5ª armata austriaca. Il passaggio in forze dell’8ª armata provocò il crollo dell’intero fronte, mentre nelle retrovie era già iniziato il dissolvimento d’interi reparti, accresciuto dalle voci che davano per imminente la definizione di una pace separata. Tutte le armate italiane superato il Piave si lanciarono all’inseguimento di truppe in ritirata o in fuga verso il Trentino. Sempre il 29 a Zagabria era stata proclamata la nascita di uno stato sloveno-croato, cui Vienna consegnò la base di Pola; il giorno seguente Trieste autoproclamò l’annessione all’Italia. Il cessate il fuoco tra italiani e austriaci scattò alle 15 del 4 novembre: da quel momento divenne il giorno della Vittoria.

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Ultima modifica 14/02/2019