Cinquecento Canturino

Il complesso paleocristiano della Pieve di Galliano

Il complesso paleocristiano della Pieve di Galliano

"Sotto il dominio di Carlo V e di Filippo II suo figlio gemettero le nostre contrade nella più profonda miseria, la quale veniva accresciuta da naturali orrendi fenomeni e mantenuta dalle sterminatrici valanghe di soldati d’ogni nazione, che da tutte le parti piombavano a desertare ed impoverire i popoli": così don Carlo Annoni sintetizzava le vicende di Cantù nel XVI secolo.

Questo storico locale, minore solo dieci anni di Alessandro Manzoni, apparteneva anch’egli al patriziato milanese; pubblicò la sua opera nel 1835, pochi anni dopo i Promessi Sposi. La sua penna ci appare intrisa d’aneliti risorgimentali e la sua lingua “curiosa”, tuttavia egli non fu un semplice erudito. Durante i tre lustri del suo ministero nella cittadina briantea riuscì a organizzare un centro per la cura dei pellagrosi e a raccogliere tra i fedeli fondi adeguati per riaprire al culto (dopo decenni di degrado dovuti a sequestri, occupazioni e vendite all’asta dei conventi da parte della Repubblica Cisalpina) la secentesca chiesa di Santa Maria, un tempo di pertinenza dell’omonimo monastero benedettino femminile fondato nel 1093. Si accedeva alla chiesa da via Manzoni, arteria di collegamento tra il centro storico e gli impianti sportivi della zona ovest; la nuova chiesa si era resa necessaria perché l’arcivescovo Carlo Borromeo, a seguito della sua ultima visita pastorale (1584), aveva deciso di applicare i criteri della “riforma cattolica” all’antica Pieve di Galliano, l’ente ecclesiastico che poco dopo il Mille il suo predecessore Ariberto d’Intimiano aveva incardinato nella chiesa romanica di S. Vincenzo, posta su un colle ormai divenuto una delle frazioni di Cantù.

Il cardinale scelse quale sede del capitolo plebano (e del prevosto) la chiesa di S. Paolo, sull’omonimo colle, il più alto del paese. Le monache dovettero adattarsi a una clausura più rigida e cedere alcuni spazi da secoli di loro pertinenza, mentre S. Paolo veniva, man mano, ampliata. Già a fine secolo venne adattata a battistero una cappella che nel ‘300 i Grassi, signori di Cantù, avevano inglobata nell’imponente sistema difensivo. Era prossima alla Porta Ferraia. Dal 1514 i Pietrasanta, investiti nel 1475 della signoria del paese, avevano commissionato per quella cappella un ciclo di affreschi mariani. L’interesse dell’opera sta soprattutto nel fatto che vi sono rappresentati anche i più importanti edifici dell’epoca. Gli affreschi sono stati riportati all’aspetto originario nel 1961 dal benemerito restauratore Ottemi Della Rotta (1901-1973), cui si debbono interventi fondamentali per l’arte lombarda, come quelli nella cappella Zavattari (duomo di Monza) e nella leonardesca Sala delle Asse (Castello Sforzesco a Milano). L’altro importante intervento in S. Paolo, su progetto di Pellegrino Tibaldi (15271596) fu il riadattamento a campanile della torre di vedetta trecentesca: fu rialzata e dotata di una cella campanaria su due piani sovrapposti, culminante in una cuspide in cotto.

Ai tempi dell’Annoni erano molto richiesti i merletti “di Cantù”. Deludendo i partigiani di Agnese di Borgogna, fondatrice di S. Maria, don Carlo attribuì il merito alle Umiliate, dette “di S. Ambrogio”. Mentre il ramo maschile degli Umiliati canturini aveva sede nella “casa” intitolata a S. Giuliano nella frazione Fecchio, le Umiliate nel 1505 diedero mano alla costruzione d’un monastero, poi anch’esso soppresso dalla Cisalpina, là dove si trova piazza Marconi. La demolizione dell’edificio cinquecentesco risale al 1936, a opera del “piccone risanatore” caro alla retorica fascista. Si salvò la chiesa, anch’essa separata dal convento: intitolata alla Trasfigurazione, completata nel 1570 grazie a una consistente offerta di suor Letizia Alciati, nipote del giurista Andrea (1429 – 1550), uno tra i primi studiosi europei ad applicare un’impostazione storicistica alle fonti del diritto. Gli Umiliati erano dediti alla produzione e commercio di prodotti tessili, mentre l’attività delle benedettine si caratterizzò soprattutto per la compravendita, permuta e affitto di terre e altri beni, spesso in origine pervenuti quale dote da parte delle famiglie d’origine delle claustrali.

Al monastero di Santa Maria faceva capo, tra l’altro, un mulino sul Seveso, collegato a Cantù dal torrente Serenza, che vi affluisce a Carimate. Qui nel 1517 il nobile Filippo Tagliabue fece ampliare il santuario sorto sul luogo dell’apparizione della Madonna dell’Albero. L’Annoni cita l’episodio a sostegno della la tesi secondo cui fu grazie alla speranza suscitata dalle apparizioni mariane che i canturini poterono sopravvivere a un secolo tanto calamitoso.

Pieve di Galliano

La scorreria del Medeghino
Nel gennaio 1526 il re Francesco I, sconfitto clamorosamente l’anno prima a Pavia, era ancora prigioniero nella capitale spagnola; pur di tornare in libertà aveva acconsentito a rinunciare alle tradizionali rivendicazioni francesi sull’Italia, ma nei mesi seguenti tornò sui propri passi e, accordatosi con il Papa Clemente VII de Medici e con Venezia, decise di riprendere le ostilità. A Milano il potere era formalmente in capo (dal 1521) all’ultimo degli Sforza, Francesco II, ma di fatto agli spagnoli, i quali non se ne fidavano, e gli impedivano di lasciare il suo alloggio nel Castello. All’annuncio della nascita della Lega di Cognac il Duca, di cui erano noti i legami di riconoscenza nei confronti del Papa, cercò di convincere l’imperatore Carlo V della propria fedeltà ordinando a tutti i propri feudatari (tra cui i Pietrasanta di Cantù) di mettere castelli e fortezze a disposizione delle truppe spagnole. Tuttavia ben presto vi furono sommosse, specie quando a Milano si seppe che i rinforzi imperiali erano i tristemente famosi lanzichenecchi. In autunno Francesco II riuscì a lasciare Milano (a differenza del suo ormai ex primo ministro, Girolamo Morone) e a raggiungere Cremona, da dove s’impegnò apertamente in favore della Lega.

Gian Giacomo Medici, detto Medeghino, parente alla lontana di Clemente VII, non solo si era rifiutato di consegnare l’imprendibile fortezza di Musso, di cui era stato nominato castellano qualche anno prima dal Morone, ma aveva profittato della confusa situazione politica per apprestarsi a compiere nuove scorrerie in tutta la regione lariana, sia sul lago che nelle valli. Egli aveva a disposizione soldatesche eterogenee, bene armate e molto mobili. Nell’inverno 1526 si era trattenuto, anche perché aveva in corso un braccio di ferro finanziario con Venezia, che si era pentita d’essersi rivolta a lui per arruolare nuovi contingenti di svizzeri. Giunta la primavera 1527, decise di attaccare gli spagnoli in Brianza, sia verso Brivio e Lecco che verso Trezzo e Monza. Il piccolo presidio di Cantù non poté resistergli, ma venne fermato in luglio a Carate da uno dei migliori capitani di Carlo V, Antonio De Leyva, già distintosi nella difesa di Pavia. Il Medeghino preferì ritirarsi nella sua piazzaforte di Monguzzo (Incino), mentre l’attenzione generale si spostava su Roma, che in quel tragico anno subì il saccheggio da parte dei lanzichenecchi.

Il castello dei Pietrasanta venne gravemente danneggiato dal Medeghino, probabilmente nelle parti poi inglobate, come s’è detto, in S. Paolo, ma non vi fu tempo per una distruzione totale. La famiglia feudataria lo ristrutturò e vi risiedette sino al XIX secolo, quando la proprietà passò al filandiere Salterio, e poi agli Airaghi. A seguito del fallimento di una società che faceva capo a Cesare, nel 2015 il complesso di P.zza Garibaldi è stato frazionato e offerto all’asta; dal febbraio di quest’anno una parte dello storico edificio è passata al Comune di Cantù.

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Ultima modifica 03/07/2019