Genova e l’acqua del Bisagno

Risalgono al Seicento i primi lavori destinati a portare l’acqua nelle zone più basse della città, lavori che continuarono nei secoli successivi – I “custodi” e i “conservatori”

Per chi non conosce la Superba, e cioè Genova, i nomi del fiume Bisagno e del suo affluente Fereggiano forse richiamano alla mente le alluvioni del 4 novembre 2011 e 2013, gli “angeli del fango” ed il mare di polemiche sugli interventi spesso tardivi (e, secondo alcuni, inutili e dispendiosi) posti in atto dalla Città Metropolitana per mettere finalmente in sicurezza il quartiere della Foce e, salendo verso monte, il lungo tratto cittadino in cui scorre il fiume, fino a Molassana, Struppa e Prato. Nel lungo elenco dei privati e delle aziende che hanno subito danni figura anche il Banco Desio, la cui filiale cittadina aveva sede nel viale Brigata Bisagno, che è, di fatto, una lunga colata di cemento posta sull’ultimo tratto del fiume tombinato.
 

Per i genovesi, invece, è dal lato destro della valle di questo fiume, più piovosa rispetto a quelle limitrofe, che l’antica strada dell’acqua portava il prezioso elemento fino ai quartieri più densamente popolati della città, seguendo un percorso che doveva tener conto dell’orografia particolarmente accidentata dei rilevi dell’immediato entroterra. 
 

Uno dei punti più interessanti è il ponte-canale sul rio Torbido, realizzato a partire dal 1623, e lungo oltre 100 metri. Nelle vicinanze si trova il ponte del 1630 detto “di Caxolo”, sul lato destro della valle, tra Costa d’Aggio e Cavassolo: lungo 95 metri, poggia su cinque pilastri e scavalca il piccolo rio Concasca ad un’altezza di 32 metri, solo quattro in meno rispetto a quello sul Torbido. Alle estremità ci sono due porte con archi ogivali, per controllare meglio i passaggi: salendo oltre Aggio, infatti, le mulattiere raggiungevano Creto, il più basso tra gli spartiacque collinari verso la Valle Scrivia. Percorsi pochi km nella sua direzione troviamo un bacino artificiale realizzato negli anni Venti del secolo scorso onde implementare le riserve d’acqua potabile della città: è il piccolo Lago di Valnoci, la cui palestra di roccia, su una grande falesia, è ben nota agli alpinisti genovesi.
 

Nel corso del ‘700 la frequenza delle frane nella valletta del Rio Geirato convinse le autorità municipali a porre in atto un intervento di particolare rilievo, anche economico: un canale di tubi in marmo (poi sostituiti dal ferro nel 1831, in occasione del raddoppio) che da Molassana scendeva diretto sino al fondovalle del Rio per poi risalire sulla sponda ovest, a Pino, e quindi proseguire verso la città. Secondo alcuni storici esso sarebbe il primo esempio di ponte-sifone realizzato in Italia.
 

 

L’elusione dei bronzini

Un percorso così lungo e complesso andava attentamente sorvegliato. Per attingere alle fontane pubbliche, i “bronzini”, occorreva pagare una piccola tassa all’Illustrissimo Magistrato dei Padri del Comune; di conseguenza qualche cittadino s’ingegnava nel praticare dei fori lungo i condotti in pietra, e da questi derivare l’acqua abusivamente.  Stando all’Atlante redatto nel 1729 dall’ingegnere militare Matteo Vinzoni, nel tratto al di fuori delle mura, cioè da Castelletto a La Presa, il Magistrato stipendiava dodici custodi di campagna, con compiti di sorveglianza dell’impianto e di pulitura periodica dei filtri rimovibili; essi erano inseriti in grossi vasi di raccolta costruiti con una speciale argilla porosa; l’acqua colava lentamente dal loro fondo in un recipiente o nelle tubature dei bronzini, libera da scorie e da insetti. Si tratta di un sistema ancor oggi utilizzato in alcune zone rurali di paesi del Sud-Est Asiatico. 
 

Qualche agricoltore nei periodi in cui c’era la maggior richiesta realizzava un’ostruzione con pietre e detriti, in modo da far tracimare l’acqua fino ad irrigare qualche sua fascetta; altri, dopo aver regolarmente pagato per poter aprire una derivazione della misura minima, circa 20 cm di diametro, allargavano di nascosto l’imboccatura. Essi contavano sul fatto che le derivazioni in certi tratti erano difficili da osservare da parte dei custodi che, specie in estate, percorrevano di continuo il tratto di loro competenza: infatti, essi avevano un permesso speciale per farsi aprire cancelli e sbarramenti posti sui terreni dei frontisti, tuttavia capitava che costoro, a volte solo per fare un favore agli amici che irrigavano di frodo, si rendessero irreperibili. Il custode doveva andare a cercarli a casa o dovevano procedere stando in equilibrio sul condotto, dove le lastre di copertura a volte erano viscide e in pendenza. 
 

Nel percorso urbano dell’acquedotto, che seguiva tratti della viabilità ordinaria, bastavano due custodi, mentre c’era bisogno di otto conservatori, cioè gli uomini che tenevano sotto costante osservazione le cisterne ed i pozzi pubblici, sia per la manutenzione che per evitare la caduta accidentale di qualche animale.


       

Gli interventi del Barabino

Le piogge intense del 1822 provocarono una vasta frana sul versante ovest della media val Bisagno, dove andavano progressivamente espandendosi i nuclei abitati, specie là dove i sedimenti marnosi e calcarei rendevano i terreni terrazzati più semplici da coltivare ad ortaggi, ed erano stati quindi eliminati gran parte degli alberi cedui. Più in alto la valle si restringeva e infossava, aumentavano le pendenze e crescevano i castagni, quindi gli insediamenti erano più radi e rispettosi dell’orografia. 
 

La distruzione dell’antico ponte medievale di S.ta Zita convinse l’Architetto del Comune, Carlo Barabino (1768-1835), protagonista di tutti i più importanti interventi urbanistici della prima metà del XIX secolo, della necessità d’ una radicale modifica della conformazione della valle subito a monte di Prato. Nel 1829 fu scavata nella roccia la galleria della Rovinata, sotto la quale venne deviato anche l’acquedotto, con una condotta lunga 148 metri. 
 

Barabino nel 1825 aveva portato a termine il riassetto a parco dell’Acquasola, la passeggiata “a monte” dei patrizi genovesi, facendo confluire le acque sorgive nella vasca centrale di una fontana. Da lì le acque sono indirizzate verso la piazza Corvetto e alimentano le cascatelle del parco urbano d’impianto romantico di Villetta Di Negro. In quell’anno l’architetto fu impegnato soprattutto nel progetto del neoclassico Teatro Carlo Felice, uno dei più importanti monumenti cittadini, purtroppo in gran parte vittima dei bombardamenti del 1944; esso si trova a poche decine di metri dalla nuova filiale del Banco Desio. 
 

Lo scavo alla Rovinata aveva interrotto i programmi di sistemazione dell’acquedotto nella zona del cimitero monumentale di Staglieno, la cui espansione a monte doveva fare i conti con l’antico manufatto; la soluzione adottata da Barabino fu un secondo grande ponte-sifone, quello del Veilino. A causa della forte pendenza del sito, sia in discesa sia in risalita, il viadotto serviva esclusivamente per l’acqua, quindi fu possibile ridurre il numero delle arcate rispetto agli interventi precedenti, con risparmio di costi; il nuovo manufatto riduceva notevolmente il vecchio percorso di costa. Barabino non fece a tempo a vedere l’opera compiuta, perché morì durante l’epidemia di colera che aveva reso evidente quanto fosse indispensabile l’apporto di acqua potabile in città; tuttavia occorse quasi un secolo perché l’acqua ricavata dal Gorzente ed in alta val Polcevera eguagliasse per importanza, nella “Grande Genova”, quella fornita dal Bisagno. 

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Ultima modifica 25/02/2016