I primi passi dell’aviazione

Nel giro di pochi anni, agli inizi del 900, l’aeroplano passò da mezzo utilizzato per imprese sportive a componente importante delle varie Forze armate, sostituendo così il dirigibile

Agli albori del 900 in Italia i velocipedi stavano ormai avviandosi ad una produzione di massa, con prezzi sempre più competitivi (per i prodotti di base) e un indotto diffuso. Aprivano rivendite di ricambi e piccole officine dove le biciclette venivano riparate ed assemblate. 
 
Un caso emblematico è quello di Alessandro Anzani, nato nel 1877 a Gorla. Suo padre riparava macchine da cucire, e lo avviò “a bottega” presso uno zio che a Monza vendeva velocipedi. Nel 1900 Alessandro andò in Francia, ospite del corridore Gabriel Poulain, e ben presto divenne un ciclista di buon livello e, al contempo, meccanico specializzato presso la ditta Buchet di Parigi, produttrice di piccoli motori per motocicli. Nel 1905 vinse ad Anversa il primo campionato del mondo di motociclismo su un mezzo di cui lui stesso aveva elaborato il motore. Anzani entrò in contatto con l’avvocato d’origine irlandese Ernest Archdeacon, che gli propose la messa a punto e il collaudo della “aeromotocicletta”, un biciclo su cui era montato un motore che spingeva un’elica in legno a due pale, analoga a quelle degli aerei. Il prototipo raggiunse gli 80 km orari, ma aveva seri problemi di sterzo e non venne sviluppato. 
 
Archdeacon proseguì quindi la collaborazione con il meccanico lionese Gabriel Voisin, dal cui opificio uscì l’aereo con cui un altro anglosassone divenuto parigino, Henry Farman, riuscì nel gennaio 1908 a vincere la sfida lanciata quasi quattro anni prima dall’Aéro-Club de France: compiere in un minuto di volo il circuito di Parigi. 
 
A finanziare la competizione, insieme a Archdeacon, c’era il petroliere Henri Deutsch, legato alla famiglia dei banchieri Rotschild. Henri fu tra i primi a far conoscere in Europa i fratelli Wright. 
Tra l’attento pubblico delle esibizioni dei due inventori americani nel 1909 c’era anche il veronese Mario Calderara. Pur essendo figlio d’un generale degli alpini, s’era arruolato in Marina; nel 1908 aveva chiesto una licenza di 6 mesi per andare a lavorare con Voisin. Da progettista s’interessò al passaggio dall’elica spingente a quella traente, cioè posta davanti al motore, come già tentato da Louis Blériot e Robert Esnault.
 
Calderara studiò anche gli idrovolanti: una passione condivisa da Anzani, il quale volle realizzare un prototipo di “battello con le ali”, il Nautilus. Dalla fine del 1906 Anzani s’era messo in proprio, realizzando motori innovativi. Il Nautilus interessò molto ad Enrico Forlanini, che era alla ricerca di nuove soluzioni aerodinamiche per il suo “idroplano”, l’antenato dell’aliscafo. Forlanini disponeva, nello stabilimento milanese dove produceva dirigibili, di una delle poche gallerie del vento italiane. 
Nel 1909 Anzani realizzò un motore, con alette di raffreddamento e un angolo di 60° per ciascuno dei tre cilindri, che venne montato sull’aereo con il quale Blériot in luglio riuscì a compiere la prima traversata in volo della Manica su di un mezzo più pesante dell’aria. 
 
L’impresa sancì la definitiva superiorità dell’aeroplano rispetto al dirigibile. Anzani grazie alla pubblicità ottenuta aprì una filiale in Inghilterra ed intensificò la collaborazione con l’azienda fondata dai fratelli Gaston e René Caudron, i primi aviatori ad aprire, nel 1910, una scuola internazionale di volo. 
 
Da quell’anno un po’ in tutti i paesi europei si registrò un significativo incremento nella produzione di aerei, accompagnato dal crescente interesse da parte delle Forze Armate. Andarono diminuendo le competizioni sportive tra gentlemen, e si manifestarono invidie e gelosie, personali e a livello delle varie associazioni, la cui ragion d’essere era anzitutto la speranza di poter conferire diplomi o brevetti di aviatore, facendosi riconoscere dalla Federazione Internazionale (F.A.I.), saldamente in mani francesi. 
Le prospettive aperte dallo sviluppo dell’aviazione interessavano i circoli finanziari di tutta Europa, anche per le evidenti sinergie tra essa ed il settore automobilistico. Non a caso Henri Deutsch, azionista della De Dion (automobili) investì nelle aziende aviatorie Astra (1909) e Nieuport (1911). Onde facilitare la manutenzione, nel 1909 destinò una forte somma per un Istituto aeronautico, dipendente dall’Università di Parigi ma collocato, strategicamente, accanto all’accademia militare di Saint Cyr. 
I grandi giornali, notoriamente finanziati dai maggiori gruppi industriali, sino al 1910 avevano esaltato indistintamente “il mezzo aereo”, in seguito si fecero più attenti anche agli incidenti di volo, con l’intento di difendere il proprio “costruttore di riferimento” e/o di denigrare la concorrenza. 
 
Nel caso dell’aviatore Jorge “Geo” Chavez, morto al termine della prima trasvolata delle Alpi (settembre 1910), il corrispondente del Corriere della Sera, Luigi Barzini, quasi non si soffermò sulla causa del disastro, cioè il cedimento strutturale del suo Blériot. Invece pochi mesi più tardi, nel marzo 1911, sulla stampa parigina comparvero le prime tesi “complottiste” a proposito della caduta dell’aviatore toscano Giuseppe Cei, il quale era noto per aver volato a spirale, su di un Farman, intorno alla Tour Eiffel. La caduta era avvenuta mentre pilotava un Caudron. Il tempo era brutto, ma vi fu chi ricordò che Cei stava andando a sostituire l’elica. Il 21 maggio, un altro episodio sconvolse Parigi: alla partenza della gara aviatoria Parigi-Madrid: l’aereo di Louis Train si schiantò sul gruppo delle autorità, uccidendo il ministro della Guerra Maurice Berteaux. Accanto a lui si trovava Deutsch: venne ferito, ma poté ben presto riprendere i piani per lo sviluppo dell’aviazione militare, che gli valsero nel 1912 la Legion d’Onore. 
Se a Parigi le evoluzioni aeree di Cei in pieno centro erano state viste con simpatia, a Roma pochi mesi prima erano costate gli arresti all’allievo ufficiale del Genio ing. Giulio Gavotti, il quale nel settembre 1910 al suo decimo volo d’addestramento aveva sorvolato Roma e il Vaticano. Il povero Chavez era morto da pochi giorni, e quindi al comandante di Govotti, Maurizio Mario Moris, di famiglia italo-francese, pervennero le lamentele delle alte sfere. In effetti l’episodio non influì più di tanto sulla carriera dell’ingegnere, che ottenne il brevetto e partecipò alle Grandi Manovre dell’agosto 1911 in Monferrato, le prime in cui venne impiegata anche l’aviazione, con compiti di osservazione sino ad allora svolti dai dirigibili. 
 
Moris voleva evitare che i “suoi” genieri venissero posti alle dipendenze di altri corpi. Non essendo riuscito ad ottenere nel 1908 dal Ministero i fondi per una scuola d’aviazione, aveva fatto istruire privatamente da Wilbur Wright a Roma Calderara e il tenente Umberto Savoja, il quale pochi anni dopo avrebbe fondato, insieme all’amico Rodolfo Verduzio, una fabbrica di aerei: dapprima licenziataria della Farman, con stabilimenti a Bovisio e Mombello. 
L’avversario principale di Moris in seno agli alti comandi era un brillante ufficiale d’artiglieria, Carlo Maria Piazza. Mentre Moris considerava del tutto naturale l’acquisto di aerei francesi, Piazza sosteneva l’opportunità di sostenere i produttori nazionali, ed in particolare Giovanni Battista Caproni, trentino (quindi ex suddito austro-ungarico), il quale dal 1910 s’era insediato presso la Malpensa, all’epoca demanio militare, e aveva intrapreso interessanti esperimenti, poi proseguiti a Vizzola Ticino, anche insieme a un giovane franco-rumeno, Henri Coanda.
 
L’incertezza sulle forniture per l’esercito è dimostrata dal fatto che il corpo di spedizione inviato alla conquista della Libia era dotato di apparecchi francesi ma anche di alcuni modelli di “Taube” (colomba), brevettato dall’austriaco Igo Etrich nel 1910 e realizzato dalla tedesca Rumpler. Mentre gli aviatori salpavano per le coste africane, a Roma il 23 novembre 1911 i rappresentanti dei vari circoli aviatori italiani, cui si aggiunsero quelli dell’Aci e del Touring Club, diedero vita all’Aero Club d’Italia, quale “rappresentante unico” presso la F.A.I.; tale organismo, tuttavia, ebbe scarsa incidenza, anche per l’ambiguità dei rapporti con le autorità militari. Tra i massimi dirigenti vi era infatti l’ing. Carlo Montù dell’Aero Club di Torino, il quale era stato richiamato alle armi e inviato, col grado di capitano, al Corpo degli Osservatori Aerei, forse allo scopo di fare da paciere tra Piazza e il neo colonnello Moris, entrambi di stanza a Tripoli: il primo con compiti operativi, il secondo con l’incarico, altisonante ma non ben definito, di “Capo dell’ufficio ispettorato dei servizi aeronautici presso la direzione generale di artiglieria e di genio”.
 
Durante la campagna di Libia a mettersi in luce fu soprattutto Gavotti, il quale nel novembre 1911 fu protagonista del primo lancio di bombe da un aereo, seguendo una tecnica che sarebbe ben presto stata resa meno pericolosa (le prime bombe andavano innescate una ad una poco prima del lancio). La stampa italiana, decisamente poco triplicista, “sorvolò” sul fatto che il lancio era avvenuto da un Taube; quella tedesca fece altrettanto, per non infastidire l’alleata Turchia; ciò nondimeno per la Rumpler l’episodio fu un’ottima pubblicità. 
Nel marzo 1912 l’influenza di Moris fu probabilmente decisiva per la clamorosa bocciatura dei produttori italiani al primo bando promosso dall’esercito. 
 
Piazza ed altri masticarono amaro, e scelsero quale contromisura di promuovere l’ing. Giulio Douhet, ufficiale dei bersaglieri decisamente più nazionalista di Moris. Il 27 giugno una leggina ad hoc istituì il “Servizio Aeronautico” con sede a Roma (alla cui guida venne formalmente lasciato l’ispettorato di Moris) ma anche un “Battaglione Aviatori”, dotato di propri mezzi e d’una scuola di volo presso Mirafiori, alla cui guida (dopo il fallimento, in ottobre, di un nuovo bando) venne posto nel 1913 Douhet, il quale nel frattempo aveva assecondato, ufficiosamente, gli esperimenti della Caproni per la costruzione un bombardiere trimotore, nonostante il progetto fosse stato bocciato da Moris. 
 
Ottenuto finalmente l’appoggio dello Stato Maggiore, Douhet favorì la joint venture per la produzione in Italia, da parte della Meccanica Lombarda (SAML) di Monza, anche se, naturalmente, l’Italia continuò ad importare prodotti francesi. Che divennero, ovviamente, preponderanti allo scoppio della Grande Guerra.
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Ultima modifica 20/01/2015