A un secolo da CAPORETTO

Nell’ottobre del 1917 Otto von Below, comandante della 14a Armata austro-tedesca, approntava l’azione contro le divisioni italiane che presidiavano la valle dell’Isonzo. La 14a era composta da veterani appartenenti a reparti distintisi sul fronte galiziano e su quello rumeno: sette  divisioni tedesche e nove austriache. Ormai l’esercito russo non costituiva più una minaccia e gli Imperi Centrali erano intenzionati a risolvere prima dell’inverno la partita sul fronte Sud. L’esercito guidato da Luigi Cadorna negli ultimi mesi aveva tenuto impegnate un numero notevole di divisioni austriache; nonostante le gravi perdite, il Comando Supremo di Udine anche nel corso del 1917 aveva intrapreso una serie di offensive - le “Spallate” - che avevano quale teatro aree montuose di scarsa rilevanza strategica, ma comunque ben al di là dei confini del 1866.

La 14a era un’armata potente, ma essendo di nuova costituzione venne trascurata dai servizi d’informazione degli Alleati. Onde confondere le acque raggiunse la zona d’operazioni passando dal Brennero, per far credere che l’obiettivo fosse il Trentino. In quei giorni Cadorna si trovava alle prese con l’ambizione del generale Luigi Capello, il quale dopo la presa di Gorizia (agosto 1916) aveva ottenuto il comando della II Armata.

Capello era convinto che fosse buona norma abituare i soldati a tenersi sempre pronti a trasferirsi in fretta, con armi e bagagli, verso le destinazioni che venivano loro ordinate. Le quali spesso erano trincee altrettanto scomode poste a pochi chilometri di distanza; tale linea di condotta  provocava inevitabili disagi nella logistica: i genieri avevano realizzato nelle zone di recente conquista strade camionabili, tuttavia molti presìdi erano raggiungibili solo con i muli. Il 12 ottobre Capello ottenne un congedo per malattia; la II Armata venne affidata pro tempore al generale  Luca Montuori (comandante 2° Corpo d’armata): una decisione non dovuta ai suoi meriti, ma al fatto che Cadorna voleva evitare di scegliere uno dei due ufficiali più “politici” della II Armata: Enrico Caviglia, comandante del 24° Corpo, e Pietro Badoglio, comandante del 27°. Montuori  non poté esimersi dal fare un quadro della situazione, cosicché il 20 ottobre Cadorna volle rimarcare per iscritto la propria contrarietà rispetto a come Capello aveva gestito il proprio settore, e gli scrisse: “Il disegno di V. E. di contrapporre all'attacco nemico una controffensiva di  grandissimo stile è reso inattuabile dalla presente situazione della forza presso le unità di fanteria e dalla gravissima penuria di complementi.”

Dove l’attacco?

Ormai in ritardo ci si rendeva conto che a seguito dei continui trasferimenti non si era radicato, tra gli ufficiali, il senso di quanto fosse fondamentale, per la difesa, lo spirito di collaborazione tra i reparti di fanteria e quelli di artiglieria. Infatti il tracciato delle linee difensive non era stato  pensato in funzione delle truppe destinate a presidiarle: la priorità era stata data ai cannoni, piazzati in quota per fornire loro un maggior raggio d’azione. Il presupposto era che i pezzi, coordinandosi, avrebbero dato luogo a tiri incrociati e reso impossibile l’avanzata del nemico lungo il  fondovalle.

Anche i combattenti erano stati posti prevalentemente in alto, a protezione delle batterie. Nel settore Cadorna era convinto di poter contare su ben tre linee fortificate. Tuttavia la più prossima al nemico, la Linea Avanzata, era stata determinata non da scelte strategiche, ma da dove s’era esaurita, ai primi di settembre, l’offensiva nota come XI Battaglia dell’Isonzo; la seconda, detta Linea di Difesa a Oltranza, ricalcava in gran parte quella delle vecchie trincee da cui era partita la spallata. La terza, detta Linea d’Armata, era meno frazionata e teneva conto della presenza d’una testa di ponte austriaca sulla riva destra dell’Isonzo presso Tolmino.

Montuori inviò ai vari corpi d’armata le ultime disposizioni tattiche dopo il 20 ottobre, quando il colpo di maglio della 14a era ormai imminente, e sarebbe stato molto difficile spostare i grossi calibri. Perché così tardi? La questione è ancor oggi controversa: qualcuno ha sottolineato la  diffidenza verso le informazioni fornite da alcuni disertori, ma bisogna considerare che, dopo le fucilazioni e le deportazioni effettuate nel giugno 1915 a Idresca d’Isonzo, la popolazione slovena considerava gli italiani truppe occupanti, quindi era impossibile ottenere conferme. Altri hanno accusato Caviglia e Badoglio di aver insistito nella tesi che l’attacco sarebbe stato sferrato contro l’altipiano della Bainsizza, onde giustificare il fatto d’avervi lasciato l’intero 24°.

La valle dell’Isonzo nel primo tratto settentrionale, quando le sue acque scorrono verso sud-ovest, è delimitata, verso ovest, dal Monte Canino; in questa zona Capello aveva stanziato il 4° Corpo d’armata, affidato al gen. Alberto Cavaciocchi. Tra le due cime principali, il Rombon e il  Cukla, le cui pendici si estendevano verso l’Isonzo, era stanziata la 43ma divisione. Avvicinandosi all’Isonzo si trova l’abitato di Plezzo (Bovec). A valle di questo paese il fiume, che riceve le acque della Coritenza, va a formare una conca, delimitata a sud ovest dal monte Polounik e dal villaggio di Saga. Dopo la “Stretta di Saga” le rive dell’Isonzo tornano a restringersi; passata Ternova si giunge a Caporetto, il centro più importante, ben collegato alla rete viaria e con un ponte “camionabile”.

Più a valle lo schieramento italiano era interrotto dalla testa di ponte di Tolmino, dalla quale gli austriaci avevano potuto osservare l’esiguità delle truppe lasciate da Badoglio: la sola 19a divisione, con i fanti della Spezia e due reggimenti di alpini.

La battaglia

Alle 2 della notte del 24 sull’intero fronte iniziò un cannoneggiamento dal Rombon alla costa giuliana. Gli artiglieri austriaci disponevano di mappe accurate delle postazioni italiane, le quali non riuscirono a sfruttare gli angoli di tiro programmati, a causa della fitta nebbia. Testimoni  autorevoli sottolineano “l’inspiegabile silenzio” dei grossi calibri del 27°, dovuto forse alla convinzione che dalla Bainsizza i nemici in avanzata fossero ancora troppo distanti. Le truppe del 4° Corpo furono colte di sorpresa dalla rapida avanzata delle colonne austro-tedesche, che si facevano strada con le nuove mitragliatrici tedesche MG08 a tiro rapido. Non curandosi di risalire le pendici dei monti per eliminare uno a uno i presidi italiani, si mantennero sui percorsi a mezza costa abitualmente utilizzati per i rifornimenti e le salmerie, incontrando quasi sempre  reazioni confuse: la nebbia, il freddo, la mancanza di ordini indussero molti ufficiali a “mantenere la posizione”, senza cercare d’intercettare o d’impegnare in combattimento il nemico, che presto si trovò troppo vicino alle linee per essere cannoneggiato.

Una seconda colonna tedesca anziché attaccare direttamente il Rombon si mantenne sulle pendici del Cukla, da dove furono sparate in contemporanea 900 granate di gas asfissiante, creando una nube che scese sulla Conca di Plezzo, provocando rapidamente la morte di circa due  terzi dell’87° reggimento di fanteria della 43a divisione. La quale ben presto si trovò a non poter più comunicare con il resto dell’Armata, dato che uno dei primi obiettivi degli austro-tedeschi era stata l’interruzione delle linee telefoniche.

In mattinata venne intrapreso l’attacco alla Stretta di Saga, dove la resistenza italiana si rivelò più efficace; gli alpini del battaglione Ceva subirono pesanti perdite ma resistettero sino al pomeriggio inoltrato. In effetti già nel pomeriggio del 24 ottobre il sistema delle tre linee era di  fatto saltato. A monte di Plezzo, sul Rombon, i battaglioni alpini San Dalmazzo, Dronero e Saluzzo, insieme a elementi dell’88° fanteria, combatterono sino a sera per arginare l’attacco da nord, poi ricevettero l’ordine di ritirarsi in direzione del monte Canino. Nel frattempo i tedeschi della divisione Slesiana della 14a Armata avevano raggiunto la testa di ponte di Tolmino. Non erano stati bloccati dai soldati del 27° Corpo, scarsamente motivati al combattimento dopo aver saputo che Badoglio era disceso a Udine a portare la notizia dello sfondamento in atto,  lasciando interrotta la catena di comando. I tedeschi in poche ore erano avanzati di 27 chilometri dietro la prima linea.

Un gruppo risalì la valle dal lato destro e verso le tre pomeridiane raggiunse Caporetto, incontrando poca resistenza. Il presidio aveva fatto saltare in aria il ponte, ma i tedeschi non ne ebbero danno, anzi: l’irruenza dell’Isonzo garantiva loro protezione da est nel caso d’un  contrattacco delle truppe rimaste sulla Bainsizza. Venne anche catturato il comandante della 43a divisione, Angelo Farisoglio, che s’era recato di persona in paese in cerca di notizie. Intanto la 20a divisione tedesca e 1a austriaca travolgevano la 19a, ch’era schierata su un fronte di  ben 10 km lungo la conca di Tolmino. Dall’ultimo rapporto del comandante, gen. Villani: “Dopo aver opposto tutta la resistenza possibile, le truppe della 19a Divisione verso le ore 17 sono state sopraffatte su tutta l’estensione del fronte. Le artiglierie per la maggior parte smontate; perduto quasi tutto il loro personale, sono interamente distrutte…”. Villani poche ore dopo si tolse la vita. Era ormai chiaro che i prossimi obiettivi sarebbero stati Cividale e Nova Gorica, da dove la 14° avrebbe potuto dilagare nella pianura friulana. Montuori, che con il 2° presidiava il  San Michele, ordinò al generale Bongiovanni, comandante dell’unico corpo di riserva della II Armata, d’intervenire a copertura della falla lasciata dal 27°, ma l’intervento fu ritenuto tardivo; nel frattempo affidò a Caviglia i superstiti delle tre divisioni del 27° non ancora catturati sulla  Bainsizza settentrionale, che iniziarono a ripiegare insieme a tutto il 24° verso Gorizia. La mattina del 26 ottobre i tedeschi della brigata di Erwin Rommel raggiunsero la sella di Luico, aprendo alla 14° la strada per Cividale; poco più tardi salirono sul vicino monte Matajur, dove il  giorno prima era giunta, priva di armi pesanti, la brigata Salerno, che fino al 22 era dislocata a Bassano. Si trattò d’una azione brillante, ma anche d’un chiaro esempio del fallimento delle azioni di rinforzo.

Ormai la rotta s’era estesa a intere divisioni; Udine venne rapidamente sgomberata; in tutto il Friuli furono abbandonati caserme, magazzini, ospedali e campi d’aviazione. La caduta di Udine avvenne il 28 ottobre; la difesa fu sostenuta da pochi reparti di fanteria e dagli arditi, gli alti  ufficiali se n’erano già andati.

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Ultima modifica 13/02/2019