Dalla Ferrarini sapori millenari

Sanità e qualità estreme non solo del “suo” prosciutto cotto sono alla base di un successo che ha portato l’azienda di Reggio Emilia su tutti i mercati, dal Giappone agli USA

Sui libri di scuola abbiamo imparato a conoscerla come Pianura Padana. Oggi la chiamano «food valley». Emilia, bassa Lombardia, Piemonte sudorientale formano un territorio che, favorito da una terra grassa, fiumi ricchi d’acqua e una relativa vicinanza dal mare è stato in grado di sviluppare un’agricoltura unica. E, grazie al genio imprenditoriale dei suoi abitanti, ha avuto la capacità di trasformare quei prodotti in prelibatezze alimentari. Parmigiano Reggiano, salumi, vino, aceto balsamico: sono solo i frutti più conosciuti di quella terra. Parlare con Luca Ferrarini, presidente del Gruppo Ferrarini, leader nella produzione del prosciutto cotto di qualità, è come fare un viaggio non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Perché lui e la sua azienda che ha sede a Reggio Emilia sono eredi di una tradizione che affonda le radici nella storia e ha fatto della storia un elemento di competitività.

Quando è nata la vostra azienda? Per iniziativa di chi?

Fu Guglielmo Ferrarini, mio bisnonno, che avviò la produzione di latte in uno dei suoi poderi, all’inizio degli anni Venti del secolo scorso. La storia della nostra azienda affonda le proprie radici in quel contatto indissolubile con la terra, quella presa di posizione forte nel tragitto di una storia, di un passato millenario.

L’azienda agricola come è cresciuta?

Bruno Ferrarini era mio nonno. Riuscì a mantenere i nostri poderi, a carattere prevalentemente agricolo, attraversando anni di guerra e di difficoltà serie per l’economia agricola tradizionale. Suo anche il merito di instillare a mio padre il gene dell’innovazione, della svolta, della lettura concreta dei tempi e del futuro. Mio padre, anche grazie a mio nonno, capì una cosa essenziale: il secondo dopoguerra era un periodo propizio per traghettare la produzione tradizionale di prodotti della terra della nostra famiglia verso una visione tipicamente agroindustriale: l’industria, il mercato nazionale. Per farlo, mio nonno interpretò al pieno ciò che il tempo che stava vivendo chiamava a gran voce: si trattava di sfruttare la dignità antica del prodotto agricolo, di comunicare questa dignità, di rendere il prodotto della terra carico del valore aggiunto necessario a essere protagonista del mercato in profonda evoluzione di quegli anni. Si trattava, in altre parole, di iniziare a pensare in grande.

Suo padre è stato quindi un innovatore...

Un lettore accanito del suo tempo, un uomo straordinario in grado di gettare il suo sguardo ben al di là del suo contesto, delle sue coordinate temporali. Certo, concentrava in sé le caratteristiche che erano tipiche di quella generazione, irripetibile, di imprenditori. Per lui l’innovazione, la ricerca e la trasformazione non dovevano essere estrinseche, estranee alla sua storia, alla sua tradizione, che lui riteneva essere piena di dignità e di valore. E aveva ragione. Riuscì a stabilire con il cliente la stessa fiducia e lo stesso intimo accordo che ogni agricoltore sa che deve stabilire con la propria terra, se vuole lavorare in una sinergia completa e proficua. La passione che riversava nel suo lavoro era il segno della sua generazione, ed è tuttora un tratto estremamente distintivo della nostra attività.

Verso quali prodotti si è indirizzato suo padre?

Come dicevo, intendeva l’innovazione come una potenza della tradizione. Il Parmigiano Reggiano era il simbolo, antichissimo, di quella tradizione e di quella storia. Ma c’erano anche altri prodotti che provenivano da quella storia, uno fra tutti il prosciutto crudo. Ma fu con il prosciutto cotto che il profondo genio imprenditoriale di mio padre ebbe la sua manifestazione più concreta. Era un prodotto poco conosciuto nell’Emilia Romagna che già allora era una patria del gusto, e peraltro considerato secondario, di qualità inferiore, realizzato con la materia prima giudicata non idonea a essere stagionata. Mio padre intravide in quel prodotto “di nicchia” la chiave per interpretare i tempi, e il gusto gastronomico in costante evoluzione. Riuscì a conferire una dignità gastronomica impareggiabile al prosciutto cotto. A questo fine, si basò sui due pilastri che tuttora sono quelli su cui si fonda la nostra politica aziendale, il nostro sistema di prodotto. Primo fra tutti, l’idea (interpretata quasi come un dogma dall’azienda) della sanità. “Il gusto di mangiare sano” è stato lo slogan storico che ci ha accompagnato in quegli anni di trasformazione. E poi, la qualità estrema, l’obiettivo di rivolgersi direttamente alla piccola distribuzione, nell’idea che essa sola potesse recepire correttamente l’attenzione quasi maniacale alla qualità dei nostri prodotti.

Una filosofia che ha sempre accompagnato la vostra azienda.

Per noi la qualità non è solo un concetto che costituisce il nostro sistema di prodotto. È anche il sigillo del nostro “patto di fiducia” con i consumatori. Mio padre non aveva modo migliore per esprimere la sua politica qualitativa che continuare a ribadire che il prosciutto cotto era il cibo che dava costantemente ai suoi figli. Un rapporto di fiducia che si concretizzava in un legame diretto, quotidiano, meticoloso con la clientela. 

Quindi suo padre ha reinventato la tradizione...

Direi che si possa definire, la sua, una tradizione innovativa. Bisognava ascoltare la storia senza esserne schiavi. Parmigiano Reggiano e prosciutto crudo sono prodotti antichi di duemila anni. Durante questi duemila anni hanno subito un costante perfezionamento: chi vi si accosta deve essere in grado di recepire, di capire questo patrimonio. Ma imprenditore è soprattutto colui che guarda al futuro, al mercato. Senza mai abbandonare il contatto diretto con la tradizione a cui appartiene.

Ma che cosa differenzia il vostro «cotto» da quello dei concorrenti?

Ancora una volta: sanità e qualità. Fin dagli inizi, mio padre propone un prosciutto senza polifosfati (conservanti molto impiegati a quei tempi nel comparto prosciutti). Questa innovazione sul piano della salute garantisce inoltre una qualità più elevata e un sapore migliore. La lenta cottura al vapore ne mantiene intatti gli aromi e le potenzialità nutritive. È stata una rivoluzione per il settore. A ciò si aggiunge il fatto che il nostro «cotto» nasce da una ricetta segreta che prevede l’utilizzo di un’infusione di 21 erbe aromatiche che dona al nostro prosciutto un sapore unico e inconfondibile, riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo.

Quale evoluzione conosce l’azienda?

Dai dieci dipendenti presenti in azienda al momento della sua nascita nel 1956, oggi il Gruppo conta più di 1000 dipendenti per un fatturato di 350 milioni di euro. Per seguire questa evoluzione l’azienda non ha mai smesso di reinventarsi costantemente. Il boom economico degli anni Sessanta ha concesso all’azienda di sfruttare al pieno le potenzialità del mercato e la ricchezza sociale: regioni come Lombardia e Emilia Romagna sono state recettive verso una proposta gastronomica che ha da sempre voluto collocarsi su una gamma altissima di qualità e un vantaggio competitivo che non bruciava i prezzi per coprire un prodotto scadente. Ferrarini si è mossa principalmente in questa ottica di mercato di riferimento. In particolare la Lombardia è stata individuata da sempre come regione incubatrice per i principali sviluppi in termini di mercato e promozione. Il prosciutto cotto riesce così a imporsi per una buona fetta del mercato del Nord Italia, affiancato a partire dal 1979 dalla produzione di prosciutto crudo nello stabilimento di Langhirano. Altri due stabilimenti sarebbero stati inaugurati nel 1989 e nel 2003. L’industria è da quel momento in continua evoluzione.

Il passaggio all’agroindustria vi ha fatto abbandonare il rapporto con l’agricoltura?

Al contrario. Il caso unico di Ferrarini si struttura come una sinergia inattaccabile di agricoltura ed agroindustria. L’agricoltura trasmette all’industria la linfa vitale, l’energia della terra, la garanzia di una materia prima di qualità inarrivabile che si riversa, ad esempio, nel ciclo produttivo completamente controllato del nostro Parmigiano Reggiano non ogm. L’agricoltura è per l’industria la fonte del nostro sapere millenario, del “know how” della tradizione. L’industria, d’altro canto, è un motore di innovazione, di ricerca. È un organismo proteso al futuro, alle novità tecnologiche, alla lettura puntigliosa delle evoluzioni del mercato. 

Tale sinergia si è da sempre esplicata nella pratica di investimento in terreni agricoli da parte di mio padre, terreni che costituiscono per l’azienda un capitale di risorse produttive, di storia inestimabile. Il guadagno dell’industria confluisce in gran parte così nell’agricoltura, e viceversa: un organismo pensato per essere leader nel mercato internazionale. Nei duemila ettari di proprietà produciamo foraggio per la nostra mandria di cinquemila vacche da latte, distribuite su dieci allevamenti. I due caseifici, un’acetaia per la produzione di aceto balsamico tradizionale e di Modena, i cinquanta ettari di vigneto e le cantine dove imbottigliamo vino di alta qualità (Lambrusco, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot), esplicitano così la nostra politica di “controllo” delle varie dinamiche della produzione agricola. 

La Ferrarini però non cessa di crescere...

Gli anni Novanta sono di consolidamento. Nel 2001, l’acquisizione di Vismara, storica azienda lombarda leader nella produzione di salumi, ci consente una spinta propulsiva notevolissima per affrontare il mercato tradizionale. Vismara ci permette inoltre di consolidare una visione di ampio respiro che eccede l’idea di pura produzione artigianale “locale”. Inizia così un processo di internazionalizzazione mai destinato ad arrestarsi. Non solo, ma Vismara è anche detentrice di quelle potenzialità tecnologiche che ci hanno permesso di garantire una gamma di libero servizio (prodotti in vaschetta) che completano la nostra offerta e ci rendono ancora più presenti in Italia e in tutto il mondo.

Quando avete iniziato a esportare?

Da una presenza, forte e consolidata, in Europa, Ferrarini ha potuto dopo l’acquisizione di Vismara affrontare i grandi mercati internazionali. Prima di tutto il Giappone, paese dove abbiamo creato una filiale e che si è dimostrato da sempre attentissimo nella ricezione di una cultura gastronomica raffinata e complessa come quella italiana. Sono seguite filiali distributive in Cina (Hong Kong), USA (Los Angeles), Sud Est Asiatico (Singapore e Bangkok), Svizzera e Spagna. L’estero, rappresentando oggi oltre il 20% del fatturato, è una realtà vitale e fondamentale del nostro Gruppo. L’apertura di uno stabilimento produttivo a Poznan (Polonia) nel 2007 ha consolidato questa visione con un ampliamento della gamma produttiva.

Oggi la Ferrarini che realtà è?

Un Gruppo internazionale, con mille dipendenti in Italia (compresi gli agenti monomandatari) e 300 all’estero, di cui 150 al di fuori della Comunità europea. Una realtà profondamente radicata nel territorio italiano, sia nella sede storica di Reggio Emilia (la storica Villa settecentesca di Rivaltella), sia nei tre siti produttivi di Langhirano, nei due caseifici di Puianello e Castelnovo ne’ Monti. Un Gruppo che nella promozione nel mondo di prodotti italiani trova la sua missione più essenziale. Tale sviluppo traspare dalla crescita continua del fatturato: dai quattro milioni degli anni Settanta ai 145 del 2001 (con l’acquisizione di Vismara), fino agli attuali 350 milioni di euro.

Il passaggio generazionale è stato traumatico?

Affatto. La coesione familiare, la comunicazione costante, il profondo senso di appartenenza hanno permesso di sfruttare al pieno le dinamiche della famiglia nel mondo aziendale. Mio padre è riuscito nell’impresa non frequente di fare innamorare i suoi figli del mondo imprenditoriale, della missione e del ruolo dell’imprenditore. Crescendo a contatto con tale mondo, per noi è stato naturale assumerci responsabilità sempre maggiori all’interno del Gruppo.  A partire dal 1978 mi occupo della crescita e dell’espansione della rete commerciale in Italia e all’estero: un lavoro lungo e difficile che però ha portato a risultati concreti. Con i miei quattro fratelli formiamo il consiglio di amministrazione dell’azienda: siamo una squadra unita, coesa da profondi legami umani prima che imprenditoriali. Il lavoro in squadra è stata una spinta propulsiva, e non un freno, alla coesione fraterna. Tale unione è certamente uno dei valori indiscutibili del nostro Gruppo.

Ritiene prosciutto, salumi e formaggi prodotti maturi?

Sono prodotti che hanno una storia millenaria e non sono destinati a morire. Come dicevo, il rispetto di una storia millenaria si concretizza nell’innovarla, senza deteriorarla, senza tradirla. Ferrarini ha modificato le caratteristiche di tali prodotti per incontrare le esigenze di consumatori che soffrono di celiachia, che sono intolleranti al lattosio, che prediligono una dieta sana e leggera. Ha inoltre introdotto nuovi imballaggi per ridurre l’impatto ambientale, ha migliorato i sistemi di conservazione, è l’unica produttrice di Parmigiano Reggiano a dichiarare con una certificazione controllata il completo carattere non ogm del prodotto, così come ha perseguito questa politica nel resto della gamma. Ha inoltre diminuito le percentuali di grassi, ha trasformato senza tradire. Questa idea, unita ad un controllo costante della qualità e ad una ricerca continua del perfezionamento, ci permette e ci permetterà di essere competitivi su sempre più mercati.

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Ultima modifica 13/01/2015