Il Made in Italy è in mani straniere?

La nostra nazione sembra essere diventata il Paese dello shopping: negli ultimi anni quasi 500 marchi nostrani sono finiti in mano di società estere – Cosa che non sempre ha comportato una perdita di valore, anzi

“Ho imparato che le grandi aziende hanno a cuore l’estetica perché trasmette un messaggio su come l’azienda percepisce se stessa, sul senso di disciplina dei suoi progetti e su come è gestita” 
Steve Jobs 
(imprenditore e informatico statunitense)


Enrico Cuccia è stato un banchiere tra i più importanti della seconda metà del Novecento e rappresenta una delle figure di spicco della scena economico-finanziaria italiana del XX secolo. Una delle sue citazioni più famose, per la quale viene spesso ricordato, è quella secondo cui: “le azioni si pesano, non si contano”. Tuttavia, gli avvenimenti di questi ultimi anni hanno smentito questa affermazione, sancendo, per il nostro Paese, la fine di un secolo in cui gli imprenditori italiani, pur dotati di ottime capacità, hanno sempre dovuto fare i conti con un capitalismo familiare provvisto di pochi capitali rispetto ai concorrenti stranieri. 


Ci riferiamo al fatto che l’Italia sembra essere diventato il Paese dello shopping: non si tratta di turisti che vengono a spendere nei nostri negozi ma delle aziende del Made in Italy che finiscono nelle mani di società straniere, perdendo così la loro identità e spesso anche i poli produttivi. I saldi all’italiana, che negli ultimi anni hanno portato quasi 500 marchi nostrani in mano straniera, non accennano a fermarsi neanche in questa prima metà del 2015: le operazioni più recenti hanno riguardato Pirelli, acquistata dai cinesi, World Duty Free (leader in Italia nel settore del vendite negli aeroporti), ceduta ad una compagnia svizzera, Ansaldo, passata ai giapponesi della Hitachi, e Indesit, ora di proprietà della statunitense Whirlpool. Ma altri esempi non mancano di certo. Lvmh è proprietaria di brand importanti come Bulgari, Loro Piana, Acqua di Parma e Fendi; Gucci e Pomellato sono invece sotto il controllo di Kering, che fa capo alla famiglia di François Henri Pinault, e che controlla anche Dodo, Bottega Veneta, Brioni e Sergio Rossi. 


Dopo il passaggio di Poltrona Frau all’americana Haworth, la casa di moda Krizia è finita in mano cinese. Unilever, multinazionale anglo-olandese, è proprietaria dell’Algida, dell’olio d’oliva Bertolli (poi ceduto alla spagnola Sos Cuetara che già controlla Carapelli e Sasso) e delle confetture Santa Rosa. Continuando con la disamina la francese Lactalis ha acquistato la Parmalat e i marchi Galbani e Invernizzi, Cademartori e Locatelli; la Nestlé è proprietaria di Buitoni, Sanpellegrino, Perugina, Motta, l’Antica Gelateria del Corso e la Valle degli Orti; i sudafricani di SABMiller hanno acquisito la Peroni; l’oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vokda Russki Standard, ha comprato Gancia, mentre i cioccolatini Pernigotti sono stati ceduti dai Fratelli Averna ai turchi della Toksoz.


Il fatto che grandi marchi italiani abbiano cambiato (o rischiano di cambiare) bandiera dovrebbe accendere l’attenzione sul concetto, in verità mai troppo dibattuto, di politica industriale. Il problema è ricollegabile principalmente alla mancanza di grandi imprese nel nostro Paese. Al giorno d’oggi, per la crescita, non bastano multinazionali tascabili seppur vitalissime. Per avere un futuro nella competizione mondiale servono anche i grandi gruppi. Un recente studio di R&S (società di studi del gruppo Mediobanca) sulle imprese manifatturiere e di servizi (escluse banche, assicurazioni e servizi finanziari) mostra un panorama non esaltante del nostro capitalismo. Solo ventisei gruppi operanti in Italia hanno un utile della gestione caratteristica superiore al miliardo, per un totale di 150 miliardi (il 10 per cento del Pil). Di questi, il 53% fa capo a otto gruppi a maggioranza pubblica, il 43% a quattordici gruppi privati italiani, mentre il 4% è realizzato da quattro gruppi a controllo estero. 


Se questa è la fotografia dei numeri, in prospettiva l’incidenza delle nostre imprese private sulla ricchezza nazionale crollerà, in quanto due di quella sparuta pattuglia di quattordici gruppi privati non possono più definirsi completamente a controllo italiano. Infatti, mentre Pirelli ha appena cambiato azionista di controllo, le ultime dichiarazioni dell’amministratore delegato di Fiat vanno nella direzione della ricerca di un alleato che renderebbe la società ancora più globale. Meno male che ci sono le multinazionali tascabili, molte delle quali hanno un volume d’affari inferiore al miliardo. Solo certe dimensioni, tuttavia, consentono di varare programmi di ampio respiro e assumere rischi importanti, senza i quali non si cresce. Solo sopra date dimensioni servono management e servizi professionali di alto livello, i quali, a loro volta, portano sviluppo di qualità e rendono più attraente venire da fuori a investire nuovi capitali. 
Se la vendita dei marchi del Made in Italy alle società straniere può essere visto come una svendita di assets strategici a discapito dell’economia nazionale, non sempre lo stesso discorso vale per l’azienda stessa. C’è chi dalla vendita agli stranieri e dall’emigrazione all’estero riesce a trarre vantaggio. Non sempre vendere equivale a perdere valore. Un’indagine di Prometeia (”L’impatto delle acquisizioni dall’estero sulla performance delle imprese italiane”), dimostra che dalla fine degli anni Novanta ad oggi le imprese acquistate da gruppi stranieri hanno ottenuto performance positive. L’occupazione in quelle aziende è aumentata del 2%, la produttività dell’1,4%, il fatturato addirittura del 2,8%. Ma non basta, perché l’ingresso di azionisti stranieri ha visto accrescere gli investimenti in ricerca e innovazione, settori aziendali che in Italia vengono troppo spesso ignorati, ridando così slancio e competitività alle imprese. 


Altre ricadute positive sono da rintracciarsi anche nelle più ampie possibilità offerte alle aziende a livello di mercato, poiché essere parte di una multinazionale permette di raggiungere nuove piazze di vendita. Il tutto con la diretta conseguenza di una maggiore richiesta di prodotti e, quindi, l’aumento del numero di lavoratori necessario alla soddisfazione di questa richiesta. Questo accade soprattutto per i marchi simbolo dello stile italiano che sono acquisiti da holding estere non perché in crisi, ma per l’elevata riconoscibilità del loro brand. Ma la domanda più importante da porsi è un’altra: queste aziende potevano sopravvivere nel mercato senza far parte di un gruppo internazionale? 
Artigianato e tradizione spesso non vanno molto d’accordo con i ritmi e le pretese di un mercato in cui la competizione globale sempre più spinta riduce i margini di guadagno. Insomma, secondo le considerazioni contenute nel rapporto di Prometeia, non c’è stata alcuna perdita di valore nelle imprese italiane cedute alle compagnie straniere. Vendere all’estero, quindi, non sembra assolutamente essere una sconfitta del sistema produttivo, ma anzi si configura come un arricchimento per le aziende italiane che attraggono sempre più i capitali esteri. Semmai, in tutto questo discorso, ciò che emerge è la quasi totale assenza dello Stato.
 
 
La crisi ha mostrato come il funzionamento spontaneo dei mercati sia tutt’altro che perfetto; come il mercato dei capitali non tenda naturalmente ad allocare le risorse verso le attività con le maggiori aspettative di profitto. C’è diffusa preoccupazione che il rallentamento dell’attività economica possa determinare un prolungato periodo di depressione, e un persistente rallentamento degli investimenti, materiali e immateriali. In tutto il mondo ci si interroga sulle politiche per il rilancio del sistema produttivo, e i governi mettono in atto iniziative nuove, anche di grande rilevanza. In Italia, invece, tutto tace, con limitatissime eccezioni: sia sul fronte delle riflessioni e delle proposte che su quello dell’azione concreta. 


Eppure le richieste delle imprese italiane sono sempre le stesse da molti anni: ridurre il costo del lavoro, abbattendo in modo incisivo il cuneo fiscale, adottare misure per agevolare il rientro di chi ha delocalizzato, cambiare una burocrazia sempre più invadente, in sostanza ottenere dalle autorità centrali iniziative in grado di produrre e di diffondere conoscenza e di sostenere, accompagnare, influenzare le trasformazioni di lungo periodo delle imprese e delle industrie. In un momento quindi cruciale per il futuro dell’industria manifatturiera (e noi siamo il secondo Paese per importanza nella Ue) in Italia, senza provvedimenti mirati e di largo respiro, potrebbe innescarsi un meccanismo senza ritorno che porterebbe alla desertificazione industriale.
Nell’ottobre 2012 la Commissione Ue ha adottato le nuove linee di intervento in materia di politica industriale, nel quadro di “Europa 2020”. Quattro le priorità sulle quali devono convergere le azioni dei singoli Stati membri: investimenti nelle nuove tecnologie e nell’innovazione; miglioramento delle condizioni di mercato; sostegno all’accesso ai finanziamenti (credito più facile); sostenere gli investimenti in capitale umano e competenze. Su queste direttrici si stanno incanalando le scelte di politica industriale già fatte da Francia, Germania e Gran Bretagna. Ma trovare una linea di coordinamento comune non è facile. Infatti, il progetto risente delle politiche d’austerità adottate dall’insieme dei Paesi dell’area euro, nonostante all’interno dell’ultimo bilancio europeo approvato sia presente una ridefinizione interna degli stanziamenti che porta ad una crescita del 37% per quelli dedicati alla crescita e al lavoro (che passano così dal 9% al 12% del bilancio complessivo). 


Certo, una inversione apprezzabile, ma del tutto insufficiente per realizzare gli obiettivi di Europa 2020, proprio perché adottate in un quadro complessivo di misure fiscali restrittive. Inoltre, le politiche industriali europee hanno un limite: le diverse specializzazioni produttive dei singoli Paesi, che si amplificano con la moneta unica; a parità di condizioni (finanziarie e monetarie), sono proprio le azioni delle amministrazioni pubbliche, la presenza di un tessuto produttivo privato innovativo e non ostile a governare i cambiamenti tecnologici e condizionare le traiettorie dello sviluppo e la dinamica strutturale. In altri termini, i Paesi che hanno costruito e consolidato dei sistemi nazionali d’innovazione capaci di fare ricerca e sviluppo hanno anche saputo governare l’evoluzione delle componenti della domanda effettiva, producendo i beni necessari per le esigenze di una struttura produttiva e di consumo sempre più fondata su beni e servizi ad alto contenuto tecnologico, riducendo gli investimenti sul Pil, ma rafforzando la struttura di ricerca e sviluppo.


Ormai non ha più senso parlare di Paesi, ma il confronto è fra grandi piattaforme produttive, soprattutto alla luce delle nuove tecnologie. Dunque anche le politiche devono misurarsi su queste scale. L’Europa non sempre sa che cosa vuole dalla propria identità manifatturiera. E se non lo sa l’Europa, figuriamoci l’Italia.
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Ultima modifica 05/02/2016