LIBERO SCAMBIO e PROTEZIONISMO: teorie a confronto

Il dibattito sul protezionismo è un argomento di confronto ricorso più volte nella storia economica e strettamente legato alla storia degli stati nazionali.

Il mondo sta andando al contrario di come eravamo abituati a vederlo negli ultimi decenni. La globalizzazione, che ha fatto emergere nuove potenze economiche quali la Cina, non è più di moda e con essa sembra eclissarsi il multilateralismo. “Americanismo, non globalismo, sarà il nostro credo” è la promessa di Donald Trump. Perché, a suo avviso, l’America come potenza militare e commerciale è stata danneggiata dall’apertura al commercio globale e all’immigrazione: per farla tornare “grande” occorre perciò rivedere innanzitutto i trattati e le organizzazioni internazionali che costituiscono altrettante pietre miliari della liberalizzazione. In questa prospettiva, il neo Presidente Usa ha ventilato la fuoriuscita degli Stati Uniti dalla Wto (organizzazione per il commercio mondiale) e definito il Nafta (trattato di libero scambio commerciale tra Stati Uniti, Canada e Messico) “il peggior trattato commerciale della storia”.

Pertanto propone di rinegoziarlo, seppellire gli accordi multilaterali e, in futuro, tornare a quelli bilaterali con i singoli Paesi; nonché di punire con tasse e barriere tariffarie la “scorretta” competizione commerciale di Pechino, la cui espansione ha creato, secondo lui, “il più grande furto di lavoro della storia”.

Il dibattito sul protezionismo è un argomento di confronto che è ricorso più volte nella storia economica ed è strettamente legato alla storia degli stati nazionali.

Le sue origini possono essere ricondotte sia al mercantilismo che, finalizzato alla potenza militare, accompagnò la nascita e il rafforzamento delle monarchie nazionali europee tra XVII e XVIII secolo, sia al colonialismo, che contemporaneamente consentì ad alcune grandi potenze di costituire dei mercati talmente ampi da essere potenzialmente autosufficienti.

Questo approccio di politica economica trova i suoi fondamenti nella teoria che ritiene prioritario salvaguardare le attività produttive nazionali dalla concorrenza estera mediante interventi statali, che possono prevedere l’applicazione di dazi protettivi ai prodotti importati o alle materie prime esportate (protezionismo doganale), così come la previsione di contributi e tassi agevolati ai produttori nazionali esportatori, o ancora il controllo del mercato nazionale e internazionale dei cambi e delle monete e del movimento dei capitali (protezionismo non doganale); può mirare a migliorare artificialmente la competitività delle imprese di un certo paese (protezionismo reale) oppure a influenzare le scelte dei risparmiatori circa l’allocazione della ricchezza (protezionismo finanziario). Ma a partire dalla metà del XVIII secolo, l’espansione del commercio internazionale e lo sviluppo dell’industria e della tecnologia (che avevano creato le condizioni per il definitivo passaggio da un’organizzazione economica tradizionale a un sistema basato sull’iniziativa privata, sulla divisione del lavoro e sul mercato) decretarono la fine del protezionismo, che rimase limitato ai settori più deboli della produzione, cioè a quello agricolo meno sviluppato e alle industrie nascenti. Sono questi gli anni della nascita e del consolidamento della nuova economia capitalistica, che esaltava il valore del libero scambio nella convinzione che la soppressione di limitazioni al commercio interno ed esterno, come pure l’accesso a nuovi mercati, avrebbe favorito la divisione del lavoro, aumentato la produzione economica e, pertanto, il benessere collettivo. Adam Smith, a cui più di ogni altro si deve la prima compiuta formulazione delle teorie del libero scambio (La Ricchezza delle Nazioni, 1776), suggeriva che è una regola valida per ogni singola famiglia, così come per un regno, non cercare mai di produrre in casa ciò sarebbe più conveniente comprare fuori. Ciò vuol dire che se una merce può essere acquistata all’estero a un prezzo minore di quello che costerebbe produrla in patria, sarebbe sciocco ostacolarne l’importazione, poiché questo spingerebbe l’industria su strade meno remunerative di quelle che essa potrebbe trovare da sé.

Se all’inizio del XIX secolo si esaltò il valore del libero scambio, dal momento che la rivoluzione industriale aveva determinato un sicuro vantaggio su tutte le altre economie in Francia e, soprattutto, in Gran Bretagna, negli ultimi decenni dell’Ottocento il protezionismo trovò la prima forte applicazione nella

Germania di Bismarck, seguita dall’Italia di Depretis e Crispi, paesi allora privi di impero coloniale e di uno sviluppato sistema industriale. Questa svolta provocò la reazione politica ed economica degli altri paesi avanzati, con l’apertura di vere e proprie “guerre commerciali”, tra le quali molto grave per l’agricoltura italiana, soprattutto del Sud, fu la “guerra delle tariffe” che contrappose Francia e Italia tra il 1888 e il 1892, in seguito all’adozione italiana di misure protezionistiche.

Ciò accentuò la ricerca di vie tendenti all’autarchia, non ultima tra le cause delle due guerre mondiali e della cosiddetta Grande Depressione degli anni Trenta del XX secolo. In precedenza, negli Stati Uniti, alle cui origini stava una rivolta contro i dazi doganali di stampo mercantilista imposti dalla Gran Bretagna colonialista, una delle cause della guerra di secessione era stata proprio la contrapposizione tra le industrie nascenti del Nord, che volevano protezione doganale contro le importazioni industriali, e i piantatori del Sud, che temevano le ritorsioni estere contro le loro esportazioni ed erano quindi a favore del libero scambio. Se si prescinde dall’isolamento dell’Urss, della Cina Popolare e degli altri paesi socialisti, dopo la seconda guerra mondiale nel resto del mondo hanno prevalso complessivamente le politiche liberiste. La verità è che queste ultime, favorite dalla stipula di accordi e dalla creazione di organismi su scala mondiale o regionale volti a tutelare la libertà degli scambi, sono state sempre accompagnate da meccanismi correttivi a tutela di singoli settori o prodotti.

Soprattutto quando il riaffiorare di posizioni protezionistiche era giustificato da situazioni di depressione economica mondiale, come avvenne in seguito ai problemi originati per esempio dalle crisi petrolifere a metà degli anni ’70 che hanno richiesto un massiccio uso di contingentamenti e di altre barriere non tariffarie. Ciò nondimeno, gli anni ’80 sono stati caratterizzati dal pieno sostegno da parte di alcuni governi (Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti) a iniziative economico-politiche ispirate a criteri di neo-liberismo. Iniziative confermate, nel corso degli anni ‘90, dalle dinamiche di crescente globalizzazione dei mercati, che si sono concretizzate in una serie di ampie aree di libero scambio (Unione Europea, Nafta, ecc.) e nella decisione assunta dagli oltre 150 paesi membri della Wto di attuare la liberalizzazione totale dei mercati.

Le giustificazioni al ricorso di misure di natura protezionistica possono essere molteplici e sono ricollegabili principalmente alla necessità di sostenere lo sviluppo e la crescita di industrie nei loro primi stadi di sviluppo. Questo è forse il principale argomento a favore di questo tipo di politiche. Se la produzione di un bene è caratterizzata da economie di scala, i costi saranno elevati quando l’industria è di piccole dimensioni, ma si ridurranno al crescere della stessa. In questo caso i Paesi che sono già nel settore hanno un grosso vantaggio, mentre per gli altri è estremamente difficile competere con rivali già ben avviati. Chi è a favore di questo atteggiamento economico sottolinea, inoltre, come adottando tali misure un Paese possa sia evitare l’uscita di valuta pregiata sia aumentare le esportazioni e diminuire la dipendenza dalla produzione estera. Senza contare gli effetti benefici sull’occupazione, favoriti dalla nascita di nuovi settori produttivi prima trascurati o mal utilizzati. Infine, viene posto l’accento sui vantaggi derivanti dalla tutela e dallo stimolo della ricerca e dei perfezionamenti tecnici in particolari industrie.

Ognuna di queste affermazioni, tuttavia, è stata oggetto di ampi dibattiti che hanno visto soprattutto i teorici del liberismo impegnati a sottolineare le conseguenze negative di tali misure. Infatti, per i fautori del libero commercio, l’abbattimento delle barriere e dei confini geografici permette ai consumatori di ogni parte del globo di accedere al libero mercato degli scambi commerciali dove tutti i prodotti, beni e servizi di ogni genere possono essere acquistati a prezzi più vantaggiosi e con servizi di qualità sicuramente di più alto valore aggiunto.

La maggiore competizione e il regime di concorrenza perfetta consente e stimola le imprese a perseguire una strategia di innovazione e di investimento in ricerca e sviluppo, volta a sperimentare e progettare nuovi prodotti o servizi, nuovi processi produttivi o a migliorare quelli esistenti. Proprio in questo modo il commercio consente di trasferire le innovazioni tecnologiche e le conoscenze acquisite e costituenti il capitale intangibile: lo scopo è quello di aiutare ogni sistema-paese a svilupparsi e a saper competere nell’agone internazionale acquisendo efficienza, efficacia ed economicità.

Sul piano generale possiamo dire che la concezione liberista ha come corollario una teoria dello Stato incentrata sul primato dell’economia (Stato “minimo”, subordinato agli interessi della società civile), mentre la concezione protezionista ha una teoria dello Stato basata sul primato della politica, e per questo la seconda appare assai più ideologica della prima, la quale suggerisce un’idea di Stato sociale (inteso come motore di sviluppo omogeneo della società).

D’altronde, la storia economica, pure quella più remota, ha dimostrato che nella dinamica dei rapporti commerciali internazionali non esiste un sistema rigorosamente definito in riferimento al quale si possa parlare di un regime assoluto di libero scambio o al contrario di un modello integrale di autosufficienza.

Dunque, lungi dall’essere concetti che si elidono a vicenda, liberismo e protezionismo si concretizzano nella realtà l’uno come sviluppo, non negazione, dell’altro e non di rado le prassi cui essi si riferiscono convivono all’interno di una stessa economia nazionale. Per questo non ha alcun fondamento, né storico né economico, contrapporre questi due concetti e le relative prassi, perché, come affermava lo stesso Adam Smith: “Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all’ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze, per superare tutti gli altri concorrenti, […] la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l’un l’altro.”

 

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Ultima modifica 03/07/2017