Merate e il castello dell'abate

Merate si estende su alcune colline in prossimità del medio corso dell’Adda; dista 20 km dal capoluogo, Lecco, e 25 da Bergamo.

Passando da Vimercate, Milano dista una trentina di Km, poco meno della distanza da Como, collegata dall’antica pedemontana per Erba e Cantù. 

In epoca longobarda questo territorio, prettamente boschivo, era soggetto al convento di Civate; dopo il Mille entrò nell’orbita milanese: da tradizione fu il vescovo Ariberto d’Intimiano a costruire un castello, poi dotato di fossato e ponte levatoio, a presidio dell’itinerario dalla Brianza alla Bergamasca. Il sistema difensivo era completato da un altro fortilizio sul colle della frazione Sabbioncello, da cui passava la strada per Lecco ed il Lario Orientale.

La giurisdizione ecclesiastica sul borgo venne confermata nel 1158 dall’imperatore Federico Barbarossa in favore del fi do Guifredo, abate del monastero milanese di San Dionigi.

Nella seconda metà del Duecento anche questo territorio era entrato nel sistema di governo comunale guidato dalla famiglia Torriani, il cui sistema di potere era ben consolidato tra i feudatari della Martesana, a differenza dell’area lariana e dell’Ovest milanese. Date tali premesse si può comprendere la decisione di abbattere i castelli di Merate, il cui mantenimento avrebbe costretto i Torriani a mantenere una guarnigione là dove serviva loro meno. Era il 1275; meno di due anni più tardi, nella battaglia di Desio, quella potente famiglia venne sonoramente sconfi tta.

I vincitori, i Visconti, ed i loro successori, gli Sforza, non ritennero opportuno ricostruire il castello. Merate era lambita da importanti itinerari commerciali, ma la popolazione, dedita in prevalenza all’agricoltura, era ben distribuita tra le numerose frazioni, ed il “sistema” delle grandi cascine e delle ville poste sulla parte più elevata delle colline poteva offrire una certa protezione nel caso d’un peraltro poco probabile attacco. In effetti le lotte tra Milanesi e Veneziani ebbero quale teatro la non lontana Gera d’Adda, ma risparmiarono Merate. 

Qui come in altre zone della Brianza, ad esempio a Meda, col trascorrere dei secoli la giurisdizione monastica perse d’importanza, specialmente a seguito della vendita alcuni dei diritti feudali da parte del Ducato, l’entità politica mantenutasi anche durante la dominazione spagnola. Ad acquistarli erano state famiglie della piccola nobiltà, e in particolare i Novati, cui subentrarono gli Airoldi di Robbiate. 

Un altro elemento che andò a intaccare le antiche prerogative del monastero di San Dionigi fu la riorganizzazione ecclesiastica seguita al Concilio di Trento: alla fine del XVI secolo i francescani riformati che facevano capo al convento milanese di Santa Maria della Pace s’insediarono sulle rovine del fortilizio di Sabbioncello ed aprirono, nel secolo seguente, un santuario mariano annesso al convento.

 

L’organizzazione militare e l’intervento dell’Abate Visconti

Lo storico Ignazio Cantù era molto legato a Brivio, il centro che ancora nel XIX secolo contendeva a Merate un ruolo da protagonista nella zona del medio corso dell’Adda; anche per questo, a proposito del sistema di reclutamento dei giovani contadini nel turbolento Seicento, si limitava a brevi osservazioni, come la seguente: “A Lecco e Trezzo risiedevano due castellani spagnoli, a Merate abitava l’ufficiale di coscrizione”.

Da altre fonti sappiamo che era a carico dell’amministrazione del Ducato il peso della coscrizione, che avveniva o per ingaggio (quando c’erano volontari interessati alla carriera militare) o per sorteggio, di solito demandato ai feudatari delle singole località del Ducato.

Il numero dei soldati richiesti ad ogni comunità, dopo la riforma del 1635, era direttamente legato alla quantità del sale ad essa attribuita in base alla vecchia, rigida e contestata ripartizione che risaliva a Carlo V: un uomo ogni 14 staia di sale “consumato” (non di fatto, ma per convenzione) in ciascuna comunità.

Ciò nonostante il fatto che, anche a seguito del “terremoto” demografico causato dall’epidemia di peste, i funzionari della Camera Ducale avevano a disposizione i dati sulla composizione dei fuochi, cioè delle famiglie effettivamente residenti, e se ne servivano per calcolare quanto avrebbe dovuto sborsare chi intendeva acquistare per sè ed i discendenti i diritti feudali sulle imposte di consumo o, in alternativa, quanto sarebbe costato alle comunità la redenzione, provvedimento che sanciva l’eliminazione definitiva, per i residenti, da quelle tasse locali. 

Merate fu uno dei primi centri del Ducato in cui i maggiori proprietari raccolsero la somma necessaria ad emanciparsi dalle tasse feudali, dopo che s’era estinta la linea maschile degli Airoldi, nel 1648.

Tre anni prima era nato Ettore Visconti, figlio di Teobaldo II e di Claudia Tassoni d’Este; in quanto secondogenito, venne destinato alla carriera ecclesiastica. 

Il nonno, Cesare, aveva fatto fortuna sotto le insegne spagnole nelle Fiandre e nel 1620 aveva ottenuto il titolo di marchese, appoggiandolo al possedimento di Cislago, da un secolo proprietà di questo ramo della famiglia Visconti.

Fedelissimo alla corona spagnola, da cui ottenne il toson d’oro (onorificenza analoga alla Legion d’onore francese), Cesare non badò a spese nella ricostruzione del castello; tra i suoi figli, oltre al marchese Teobaldo II, anch’egli uomo d’arme, si distinse l’ultimogenito, Galeazzo, molto versato nelle transazioni finanziarie. Già nel 1650 i due fratelli acquisirono i diritti feudali sulla contea di Gallarate, e incrementarono il patrimonio fondiario a Oriano Ticino, Vanzaghello e Lonate Pozzolo. Tra i numerosi investimenti dei marchesi di Cislago vi fu anche l’acquisizione della commenda ecclesiastica sul monastero di San Dionigi, affidata ad Ettore, il quale, dopo la laurea in legge a Pavia, aveva ottenuto, con la “benedizione” dello zio Giacomo Antonio, domenicano, alcuni incarichi alla corte pontificia e alcune missioni diplomatiche: a Malta, in Toscana e a Colonia. La sua carriera romana presenta molte analogie con quella di un altro Visconti, Federico, il quale nel 1681 venne nominato Arcivescovo di Milano. I due non erano parenti, tuttavia erano entrambi legati da parentela ai Borromeo: non a caso la nomina arcivescovile di Federico e gli incarichi più prestigiosi al più giovane Ettore si debbono a papa Innocenzo XI, il comasco Benedetto Odescalchi, molto legato ai Borromeo Arese. 

Ettore, che condivideva col fratello Carlo III il titolo comitale su Gallarate, non era legato ad obblighi pastorali, dato che il titolo ecclesiastico più importante da lui conseguito fu quello di “vescovo di Damietta”.

Secondo le consuetudini della Curia, i vescovati onorifici erano un “trampolino di lancio” per la nomina a un cardinalato, che tuttavia non giunse mai. 

Nel 1693, morto l’anziano Federico Visconti, il Papa Innocenzo XII nominò Arcivescovo di Milano un altro “curiale”, il nobile novarese Federico Caccia, anch’egli legato ai Borromeo; Ettore, deluso dalla scelta papale, decise di abbandonare la carriera ecclesiastica e tornò in Lombardia.

Non volendo far ombra al fratello marchese Cesare III, anch’egli uomo d’arme filospagnolo, si stabilì a Lambrate, da dove raggiungeva spesso Merate. In entrambi i centri il monastero di San Dionigi aveva mantenuto una certa autorità, quantomeno in campo giurisdizionale.

All’Abate, orgoglioso erede d’una schiatta di militari, non faceva piacere il fatto che, per mancanza di strutture, i contadini reclutati a Merate dovevano poi recarsi ai depositi di Annone per ricevere le armi e la paga; decise quindi di ricostruire l’antico castello medievale, dotandolo anche di un’alta torre d’avvistamento circolare, oltre che d’una cappella interna. 

Il grande e austero edificio, caratterizzato da una mescolanza di stili e di materiali (furono utilizzate anche molte delle pietre rimaste per secoli in loco) sorse nel 1702. L’abate spese molti danari, quasi a dispetto dei suoi due grandi nemici: il primo era Giuseppe Castelbarco, il conte “mezzo todesco” che nel 1696 aveva sposato Costanza Visconti, la maggiore delle cinque figlie di Cesare III. Quando nel 1701 era morto a soli 19 anni l’unico maschio, Teobaldo III, fu chiaro che il titolo e il castello di Cislago sarebbero passati ai Castelbarco, così l’Abate si risorlse a farsene uno in proprio, e a non lasciar nulla alla nipote. L’altro nemico era Giuseppe Archinto, nominato nel 1699 da Innocenzo XII successore del defunto Caccia. L’Archinto, anch’egli parente dei Borromeo, aveva percorso una carriera in Curia paragonabile a quella di Ettore, ma con maggior fortuna; e pur essendo notoriamente filo-francese, era riuscito ad avere un certo successo alla corte di Madrid, proprio pochi mesi prima della morte di Carlo VI. 

I fratelli Visconti, per tradizione fedeli alla “Vecchia Castiglia” e incapaci di comprendere i tempi nuovi, avevano vissuto la cosa quasi come un affronto personale.

L’unica soddisfazione per l’Abate, nei tristi e convulsi anni della Guerra di successione spagnola, fu che l’Archinto, più giovane di lui, lo precedette di qualche mese nella tomba: entrambi scomparvero nel 1712.

Il castello di Merate rimase proprietà di San Dionigi, fino alla soppressione degli ordini monastici decisa dalla Cisalpina, e poi passò alla famiglia Prinetti. Ma per questa fase delle sue vicende rimando il lettore a un mio articolo pubblicato nel 2003 da Brianza Economica, “antenata” de “La Banconota”.

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Ultima modifica 23/12/2016