TREZZANO

il Naviglio Grande e il Piccinino
TREZZANO

Negli anni ’60 del XII secolo nelle campagne a sud ovest di Milano, il cui valore era cresciuto grazie alle bonifiche e alla diffusione delle marcite, attribuite dalla tradizione ai Cistercensi, venne intrapreso dall’allora signore di Milano, Martino Torriani, lo scavo di un nuovo canale che doveva rivaleggiare, per importanza, con la Muzza. Gli arci-rivali lodigiani, su impulso dell’imperatore Federico II, tra il 1220 e il 1230 avevano notevolmente ampliato la portata e il percorso d’un antico canale (alimentato dal torrente Molgora), l’Addetta, derivato dall’Adda. A valle della chiusa di Paullo, un cavo proseguiva verso Melegnano per confluire nel Lambro, mentre quello nuovo, ricchissimo d’acque, traversava e irrigava il territorio di Mulazzano, Tavazzano, Lodivecchio, Cavenago, per poi reimmettersi nell’Adda. Già dal 1209 le acque del Ticino (o, meglio, del Ticinello) raggiungevano Milano da Porta Ticinese; grazie ai nuovi scavi, nel 1272 la portata divenne tale da consentire una navigazione abbastanza regolare tra il punto di presa iniziale, Tornavento, 23 km a sud di Sesto Calende (là dove il fiume abbandona il Verbano) e la Darsena, nuovo scalo fluviale cittadino. Un percorso di circa 50 km destinato a rivoluzionare il sistema dei trasporti di tutta la Lombardia centro-occidentale e delle valli svizzere che facevano capo al Lago Maggiore. Non era stato possibile seguire il percorso più breve dal fiume alla città, dato che l’opera sfruttava la pendenza naturale delle zone traversate. Tale scelta coinvolse un’area più estesa di quanto sarebbe stato possibile facendo ricorso alle chiuse, le quali però avrebbero imposto costi maggiori e maggiori tempi di percorrenza; tale scelta alimentò l’annoso conflitto tra i Torriani (appoggiati dalle consorterie mercantili) e i cosiddetti Capitanei, o Nobili, i quali si ritenevano danneggiati dal fatto di non poter più disporre, per le loro terre, dell’acqua “fluviale” che fino ad allora s’integrava con quella ricavata dalle risorgive e consentiva una vasta produzione di foraggio. Non a caso nel 1275 i Nobili che attaccarono uno dei borghi più fedeli ai Torriani, Lacchiarella, vennero sostenuti dai Pavesi; infatti mantenere costante l’acqua nel Naviglio Grande implicava una riduzione della portata del Ticino pregiudizievole per i mulini pavesi. Il Naviglio, via di comunicazione “internazionale” per la quale passavano le merci più disparate, con una prevalenza di legname e materiale da costruzione verso la città, e di manufatti e alimenti verso il Nord, aveva bisogno d’una costante sorveglianza lungo l’intero percorso, onde dissuadere i malintenzionati e controllare la regolarità delle captazioni d’acqua. Gli abitanti delle cascine e dei piccoli centri che s’affacciavano sulle rive fornivano manodopera e servizi: osterie; locande con annesso stallazzo per i buoi e i muli che trascinavano le barche controcorrente; piccoli fondaci; laboratori per la riparazione delle barche e/o del cordame. Uno di questi centri, testimoniato già in epoca carolingia, era Treciano, nella Pieve di Cesano Boscone. Ben presto, grazie al Naviglio, esso si fuse in un unico abitato con le frazioni di Terciago e Loirana. Ancor oggi lungo l’Alzaia (via Vittorio Veneto) troviamo due edifici storici appartenuti a ordini religiosi: al n° 5, in quella nota come Casa Mainardi, erano ospitati i Cistercensi; al n° 12 (Casa Tazzini), il Convento delle Grazie. Esso dipendeva in origine dai Certosini di Monte Gaudio (ad Assago), poi dalla splendida Certosa di Garegnano, oggi periferia nord-ovest di Milano. L’aumento del valore dei terreni prossimi al canale segnò l’uscita di scena, nell’ambito della proprietà fondiaria locale, della famiglia Avogadri, di ascendenza vercellese. Infatti dopo la battaglia di Desio del 1277, che aveva segnato la fine dei Torriani e l’avvento dei Visconti, i nuovi signori di Milano avevano fortemente voluto il pieno accordo con Pavia, e favorito le sinergie; così nelle città le classi dirigenti a partire dal ‘300 ripresero a investire nelle terre del Contado. Ancor oggi nel Parco del Centenario, polmone verde di Trezzano, scorre un tratto dell’inquinatissima Roggia Mezzabarba, realizzata nel ‘500 per conto d’una grande famiglia pavese, cui apparteneva anche il palazzo sede del Comune di Pavia. Uno dei suoi membri, il giureconsulto Giovanni Antonio, figurava nel 1463 tra i “famigliari” del Duca di Milano. Un altro retaggio del ‘400 in questa zona, profondamente trasformata dall’urbanizzazione iniziata nel 1960 dopo l’apertura al traffico della Nuova Vigevanese, è la Cascina Guascona. Si trova a pochi km dal centro di Trezzano, nel territorio di Muggiano, borgo agricolo dal 1923 incluso nel territorio di Milano. Il nome dell’interessante complesso deriva dai primi proprietari, forse legati a un ramo lombardo dei Guasconi di Firenze, famiglia avversa ai Medici e per questo costretta all’esilio agli inizi di quel secolo.
Un esempio di legami dinastici che in passato, tramite le proprietà fondiarie, hanno idealmente collegato località davvero distanti è quello dei Landolina, nobili siciliani il cui emblema (tre gigli bianchi in campo nero) figura nello stemma di Trezzano. Infatti nel 1669 tale Pietro Landolina acquisì i diritti feudali sul borgo dagli eredi di quello che ne era stato il primo feudatario, Luis de Guzmán Ponce de Leon (1603-1668), Governatore spagnolo di Milano dal 1662 alla morte. Il “feudo” venne soppresso nel 1796, all’avvento della Repubblica Cisalpina; il paese contava allora poco meno di 700 abitanti. A Trezzano si mostrarono particolarmente attivi nelle compravendite e nelle permute fondiarie i canonici del monastero di S. Ambrogio, ente ecclesiastico legato a importanti famiglie patrizie milanesi. La chiesa parrocchiale è dedicata al santo, e conserva importanti affreschi: una Madonna del Rosario quattrocentesca e una col Bambino, attribuita a Bernardino Luini, e indicata dal card. Ildefonso Schuster nel 1954 con l’appellativo di “patrona della Bassa Milanese”. La chiesa di S. Ambrogio è stata ampliata nel corso dei secoli e ora presenta forme barocche; un intervento importante fu la realizzazione del campanile, iniziato nel 1582 su disegno di Martino Bassi. Due anni dopo vi fece sosta per una breve preghiera il cardinale Carlo Borromeo, di ritorno a Milano in barca da Abbiategrasso. Era già febbricitante, e morì pochi giorni dopo, il 4 novembre.

Niccolò Piccinino e l’ultimo Visconti

Un secolo e mezzo prima l’approdo di Trezzano era utilizzato da uno dei più grandi capitani di ventura italiani, Niccolò Piccinino (1386 – 1444), quando percorreva il Naviglio da e per Abbiategrasso, il cui castello era stato scelto quale residenza abituale, in alternativa a quello milanese di Porta Giovia, dal terzo Duca di Milano, Filippo Maria Visconti (1392 – 1447). I due s’erano incontrati per la prima volta a Milano nel gennaio del 1426: poche settimane prima Niccolò, ex lugotenente di Braccio da Montone e suo successore dopo la morte di quest’ultimo nella sfortunata spedizione contro l’Aquila (1424), aveva voltato le spalle ai fiorentini, i quali gli avevano affidato una condotta di cavalleria, ed era entrato di punto in bianco al servizio del duca. All’epoca dei condottieri col termine condotta s’indicavano le “regole d’ingaggio” degli eserciti moderni, nonché il finanziamento indispensabile a reclutare e mantenere in efficienza un certo numero di squadre di militari professionisti. Il brevilineo Niccolò era fantino instancabile e combattente implacabile; l’allampanato Filippo aveva fama d’uomo astuto, ma anche ipocondriaco e vendicativo. Potendo scegliere tra due capitani ex bracceschi, entrambi umbri, il duca avrebbe preferito il Gattamelata al Piccinino: più esperto, più gregario, più disponibile ad accettare il protagonismo del giovane Francesco Sforza, che agli occhi esperti del Visconti dava l’impressione d’un secondo Carmagnola, il condottiero grazie al quale i domini viscontei avevano raggiunto, nel 1422, la massima espansione. Tuttavia in quel 1426 si formò un sodalizio destinato a durare, pur tra alti e bassi, sino alla morte del Piccinino, avvenuta nella sua residenza di Cusago nell’ottobre del 1444. Non si trattava d’una dimora lussuosa, come quella milanese del ricco uomo d’armi e cortigiano Erasmo Trivulzio, che il Duca gli aveva affiancato anche quale capitano subordinato per meglio assicurare la fedeltà del leopardo accovacciato (insegna cara ai Bracceschi) al “biscione” visconteo, bensì d’un luogo dove potevano svernare e rimanere in esercizio decine di cavalli senza timore di restare senza fieno. Niccolò era consapevole delle invidie e delle trame della corte, ma confidava nel fatto di poter essere informato per tempo su chi e perché percorresse l’ultimo tratto del Naviglio: già tante volte era sopravvissuto ad agguati, prigioni e attentati, e aveva sperimentato in tante occasioni quanto fosse precaria la piramide del potere su cui si basavano le signorie, eredi in ogni senso di quella che Dante aveva definito “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” Il Piccinino precedette di poco nella tomba il suo Duca, che lo volle sepolto in Duomo e ne ordinò il panegirico, in latino, a un amico e collaboratore di entrambi, l’umanista Pier Candido Decembrio; pochi anni più tardi lo Sforza, divenuto duca di Milano, sfrattò l’eterno rivale dalla tomba e cercò, non senza successo, di consegnarne la memoria all’oblio.

Rubrica: 
Autore: 
Ultima modifica 26/02/2018