Una storia d'amore

La Fondazione Corti, l'Uganda e il Lacor Hospital

Quella del St. Mary’s Hospital Lacor di Gulu (Uganda) è una storia d’amore. Anzi, sono tre storie d’amore insieme. Quella tra il medico italiano Piero Corti e la moglie, la dottoressa canadese Lucille Teasdale. Quella tra Piero, Lucille, la loro figlia Dominique e l’Uganda. E, infine quella tra la famiglia Corti, i loro collaboratori e l’Africa. Una storia lunga più di 50 anni che, come in tutti romanzi d’amore, ha anche pagine di sofferenza e dolore. Ma alla fine (anche se una fine non è ancora stata scritta), il risultato è un ospedale che è più di una struttura sanitaria. È una fonte di cure, ma anche di lavoro, formazione e protezione nei periodi di guerra. Abbiamo parlato della sua storia, dei suoi momenti più belli e di quelli più tragici, con Dominique Corti, presidente della Fondazione Piero e Lucille Corti.

Quando è stato fondato il St. Mary’s Hospital Lacor?

Il St. Mary’s Hospital Lacor, noto anche come Lacor Hospital, è nato nel 1959 per iniziativa dei missionari comboniani, con il sostegno dell’allora vescovo di Gulu, mons. Giovanni Battista Cesana (anch’egli comboniano). Allora era un piccolo presidio sanitario che contava non più di una trentina di letti ed era gestito dalla suore comboniane italiane.

Suo padre come è entrato in contatto con il Lacor?

Facciamo un passo indietro. Mio papà Piero, brianzolo di Besana, si è laureato in medicina nel 1950. Dopo la laurea, ha deciso di continuare a studiare e ha preso tre specializzazioni: neuropsichiatria infantile, pediatria e radiologia. Però aveva uno spirito irrequieto e voleva fortemente fare un’esperienza in un Paese del Sud del mondo, ma non sapeva né come né dove. Finché a Milano non ha incontrato mons. Cesana e gli ha confessato la sua intenzione di recarsi in Africa. Mons. Cesana gli ha risposto: «Un ospedale ce l’ho e sto cercando un medico. Vuoi venire da me?». Mio papà Piero non ha accettato subito. È partito per l’India, dove ha soggiornato in Kerala, poi è andato in Ciad, dove ha incontrato suo fratello, il gesuita Corrado Corti. Mio padre soffriva il caldo, Ciad e India per lui erano invivibili. Memore dell’offerta di mons. Cesana si è recato in Uganda. Ha visitato alcuni ospedali missionari. Poi è andato a Gulu. Lì ha trovato il paradiso: una cittadina su un altopiano con un clima ottimale. Quando il vescovo lo ha ricevuto mio padre gli ha detto: «Non chiedo fondi alla diocesi, ma in cambio mi assicurate completa autonomia organizzativa». Mons. Cesana ha accettato e da lì è iniziata l’avventura.

Quando ha coinvolto nell’avventura sua mamma?

Quando è tornato in Italia per organizzare la prima spedizione di materiale, ha trovato una cartolina di mia mamma. I due si erano conosciuti a Montreal. Mio papà faceva uno stage di pediatria, mia mamma si stava laureando in medicina. Tornato in Italia, avevano mantenuto i contatti. Mia mamma, dopo la laurea, si stava specializzando in chirurgia pediatrica e aveva vinto una borsa di studio a Parigi. Una volta arrivata in Francia gli ha scritto. Mio padre, entusiasta, l’ha raggiunta a Marsiglia e le ha proposto di partire con lui per l’Africa dicendole che la sua specializzazione era importante per l’ospedale. Lei, sulle prime, ha tentennato, poi si è fatta convincere e lo ha seguito. È il 1961. Da quel momento, non si lasceranno più e non lasceranno più l’Uganda dove, una volta sposati, rimarranno fino alla morte.

Da quel momento la loro vita si è unita sempre di più a quella dell’ospedale...

Sì, Piero e Lucille hanno iniziato a lavorare duramente per assistere nel miglior modo possibile i pazienti e far crescere l’ospedale. Però non erano soli. Con loro c’era un gruppo di medici italiani che li ha aiutati. Alcuni di essi erano arrivati per una breve esperienza e si erano fermati. Altri invece svolgevano a Gulu il servizio civile. Dalla fine degli anni Sessanta, infatti, l’ospedale era diventato un punto di riferimento per i medici che volevano lavorare in Uganda nell’ambito del servizio civile internazionale. Questi, dopo una prima formazione in Italia, andavano a Gulu per i primi tre mesi e poi o rimanevano o si trasferivano in altri ospedali missionari. Questo è andato avanti fino al 1983. Nel frattempo, a partire dagli anni Settanta, la Cooperazione italiana ha lanciato un progetto di sostegno degli ospedali missionari ugandesi. In quel contesto, nel 1983, l’ospedale è diventato un centro di tirocinio dei medici ugandesi, ruolo che rivestiamo tuttora. E da quel momento i medici ugandesi sono iniziati ad arrivare numerosi.

Com’è cresciuto l’ospedale negli anni?

Il Lacor è cresciuto esponenzialmente. Negli anni Sessanta c’erano quattro reparti: chirurgia, maternità, medicina e pediatria. A partire dagli anni Settanta, si sono aggiunti radiologia (con radioterapia) e chirurgia 2, pediatria, tubercolosi, malnutriti. Oggi i principali settori di intervento sono chirurgia, pediatria, medicina e ostetricia-ginecologia. Cioè la base che permette a un ospedale missionario di avere i medici neolaureati in tirocinio obbligatorio. Ai reparti si aggiungono tre centri sanitari a circa 30-40 km di distanza. L’intera struttura dispone di 554 letti di cui 72 nei centri sanitari periferici. Mediamente, ogni giorno sono presenti in ospedale 600 pazienti ricoverati e altrettanti vengono visitati negli ambulatori. A fare funzionare questa macchina sono 600 dipendenti (una trentina i medici, 200 gli infermieri). Ormai il personale è tutto ugandese.

Il Lacor è anche sede di scuole professionali?

Sì, offre numerosi corsi di formazione professionale: ogni anno oltre 500 studenti frequentano le scuole per infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio e anestesia, assistenti di sala operatoria. Inoltre sono presenti nel compound officine per costruzioni, riparazioni e manutenzione che permettono a muratori, elettricisti e meccanici di apprendere un mestiere. Dal 2008 poi l’ospedale ha avviato progetti di sviluppo delle competenze manageriali del personale, essenziali per assicurare la gestione della struttura.

Quali sono stati i momenti più difficili che avete vissuto?

I momenti difficili sono stati parecchi. Il primo è iniziato nel 1971 con la salita al potere di Idi Amin Dada. Amin ha messo alle corde il Paese. Ha ucciso professori, medici, professionisti. Cioè tutti coloro che avrebbero potuto insidiare il suo potere. L’economia e l’amministrazione pubblica sono collassati. Quando è scoppiata la guerra con la Tanzania, Amin è fuggito e i suoi soldati si sono ritirati. Ogni giorno arrivavano manipoli di militari in fuga a requisire mezzi, carburante, medicine. Si è così aperto un lungo periodo di instabilità che è durato fino al 1986 quando ha preso il potere l’attuale presidente Yoweri Museveni.

L’arrivo al potere di Museveni però non ha messo fine alla guerra...

Il Sud è stato pacificato, ma il Nord era ancora sconvolto dalla guerriglia condotta da Joseph Kony, un visionario alla guida di un movimento di ribelli spietati. Noi ci siamo trovati in mezzo ai combattimenti. I ribelli uccidevano, violentavano, rapivano (anche un gruppo di nostre infermiere, poi rilasciate), facevano combattere i bambini. La gente aveva paura e lasciava i villaggi per fuggire nei campi sfollati dove aveva protezione e poteva sopravvivere grazie agli aiuti delle organizzazioni internazionali. Dal 1995 al 2006 anche il Lacor è diventato un centro di accoglienza. Per un decennio, ogni sera dormivano nell’ospedale almeno tremila persone, ma in alcuni momenti ne abbiamo ospitate 15mila.

Nel frattempo avete dovuto far fronte al nascere delle epidemie di Aids e di ebola...

Quando è arrivato l’Aids, non sapevamo che cosa fosse. Arrivavano malati che soffrivano di tante malattie diverse, dimagrivano molto e poi morivano. Di fronte a queste morti, mio padre ha prelevato alcuni sieri e li ha portati in Italia. All’Istituto Superiore di Sanità sono state fatte numerose analisi, ma non si è riusciti a capire di che cosa si trattasse. I sieri sono stati surgelati e solo quando è stato isolato il virus si è scoperto che quei sieri erano positivi all’Aids. Purtroppo, mia mamma ha contratto il virus mentre operava. Allora non c’erano cure e così è morta nel 1996. L’epidemia di ebola invece è iniziata nell’ottobre 2000 ed è terminata nell’aprile 2001. I Centers for Desease Control and Prevention statunitensi hanno allestito da noi un laboratorio avveniristico che, attraverso test, è riuscito a individuare la patologia. In questo modo siamo poi stati in grado di contenerla. Il bilancio però è stato tragico. A Gulu nel nostro ospedale e in quello governativo sono stati registrati 400 casi e 200 decessi. Tra questi, Matthew Lukwiya, il direttore sanitario dell’ospedale. Accortosi della gravità del contagio, aveva organizzato l’ospedale per far fronte al terribile virus. In quei momenti febbrili, però, Lukwiya ha contratto l’ebola ed è morto il 5 dicembre 2000.

In questi anni, l’ospedale come è riuscito a mantenersi?

I primi anni, i miei genitori raccoglievano fondi da amici, parenti e conoscenti. La mia era una famiglia di imprenditori e ciò ha permesso a mio papà di arrivare facilmente a molti personaggi dell’industria brianzola. Tra essi la famiglia Gavazzi (Banco di Desio e della Brianza), Vismara (che oltre ai salumi produceva farmaci che ci inviava), Citterio (salumi), Crippa (Brianza Plastica), ecc. L’azienda di famiglia, la Manifattura Corti, ci è sempre stata vicino sia dal punto di vista finanziario sia da quello logistico prestandoci i locali per preparare i container da inviare a Gulu. Nel 1993 è poi nata la Fondazione Piero e Lucille Corti. Da quel momento la fondazione ha lavorato a ritmo incessante per raccogliere fondi. Successivamente, a fianco delle donazioni private e dei fondi della Cooperazione italiana, sono arrivati quelli della Conferenza episcopale italiana.

Oggi quanto costa la gestione dell’ospedale?

Attualmente la struttura ha circa 5 milioni di euro di spese correnti coperte ancora per il 70% da aiuti internazionali. La maggior parte (circa 40%) arriva dalla Fondazione Piero e Lucille Corti in Italia. Da alcuni anni opera una fondazione simile anche in Canada, il Paese di mia mamma. Questa fondazione garantisce circa 500mila euro l’anno. La restante parte dei costi viene coperta da progetti su singoli aspetti della nostra attività e dalle rette pagate dai pazienti.

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Ultima modifica 27/02/2018