La rivoluzione energetica: l’età del petrolio è già finita?

Se vi trovate a viaggiare per la Pennsylvania, il panorama che vi troverete di fronte è veramente pittoresco: è punteggiato di fattorie con mulini a vento, cavalli e calessi che testimoniano un modo di vivere lontano dal trambusto della vita del XXI secolo. Ma a partire dai primi anni duemila, tubi, strutture a forma di barili e valvole, quasi tutto dipinto di verde, si mischiano al paesaggio. Sì, perché case, fienili, strade posano su una delle più grandi riserve di gas naturale del pianeta.

“La scienza non è nient’altro che

una perversione se non ha come

suo fine ultimo il miglioramento

delle condizioni dell’umanità”

(Nikola Tesla, inventore e fisico)

A quanto pare, a sentir parlare alcuni esperti del settore, siamo di fronte ad una rivoluzione a livello mondiale, di quelle copernicane, paragonabile al passaggio che c’è stato tra il cavallo e l’automobile, oppure quello tra la macchina per scrivere e il computer. Infatti, a differenza di quanto ci avevano fatto credere fino ad oggi, e cioè che il mondo sembrava definitivamente essersi avviato verso un maggiore sviluppo delle fonti di energia alternativa e quindi verso una lenta, ma decisa riduzione delle fonti fossili, è ormai accertato che in alcuni luoghi del mondo sono celate immense riserve vergini di gas naturale e petrolio, rese finora inaccessibili dall’assenza di una tecnologia per l’estrazione economicamente vantaggiosa.

Oggi però quelle risorse fanno gola a molti, grazie ad una nuova tecnica chiamata fracking (abbreviazione di hydraulic fracturing, che significa fratturazione idraulica). Questa tecnologia permette l’estrazione in particolare di metano, ma anche di petrolio quando si è in presenza di scisti bituminose, da quelle che sono chiamate rocce scistose o scisti. Voi vi chiederete: cosa diavolo sono queste scisti? Non una malattia evidentemente, ma delle formazioni di rocce argillose nelle cui microporosità è intrappolato del gas che non ha completato il proprio percorso naturale di risalita e si trova dunque a grandi profondità. L’argilla è scarsamente permeabile, per cui questi giacimenti non possono essere messi in produzione spontanea, come avviene nei giacimenti convenzionali, ma necessitano di trattamenti per aumentarne artificialmente la permeabilità.

Proprio questa non concentrazione del gas in un’unica sacca, nonché la bassa permeabilità delle rocce, fino a poco tempo fa costituivano il problema che ne sanciva l’antieconomicità per lo sfruttamento commerciale. Non era possibile, come avviene in qualsiasi altro giacimento di gas “convenzionale” (il gas da scisti è invece detto “non convenzionale”), trivellare in verticale, arrivare alla sacca e poi tirare su la risorsa. La tecnologia della “fratturazione”, invece, consiste nel perforare con una trivella cava, che permette il passaggio di liquidi ed altri materiali al proprio interno, fino ad una profondità che varia tra i 1500 e i 6000 metri (la maggior parte dei giacimenti si trovano compresi fra queste quote). Una volta raggiunte verticalmente le scisti, dato che il gas non è racchiuso in un’unica sacca ma distribuito per tutta la formazione rocciosa, si prosegue per via orizzontale. Terminato il processo di perforazione, attraverso la trivella viene sparato ad altissima pressione, per generare profonde fratture nello strato di roccia, un misto di acqua e sabbia (che serve per non far richiudere le fratture) insieme a centinaia di additivi chimici che favoriscono la risalita del gas a quote più facilmente accessibili.

Il grande successo di questa nuova tecnologia si deve al fatto che promette di ridefinire gli equilibri energetici mondiali: se finora il gas naturale ha garantito appena il 20% del fabbisogno degli USA, rispetto al 50% dato dal carbone, la prospettiva di averne in quantità immensa a ridosso delle maggiori metropoli consente di immaginare ogni sorta di scenario. In pratica si sta realizzando un nuovo “sogno americano” per il conseguimento dell’autosufficienza energetica nazionale.

Come si può immaginare le implicazioni sono molteplici. Innanzitutto il ribilanciamento tra importazioni ed esportazioni comporta un risanamento del bilancio federale: si liberano, in tal modo, risorse da destinare ad altre attività. Inoltre, i minori costi di produzione derivanti dalla disponibilità di energia a buon mercato consentono alle aziende di conseguire maggiori livelli di competitività e quindi di conquistare maggiori quote di mercato a livello globale; senza contare che le imprese sono incentivate a riportare in patria interi stabilimenti, precedentemente dislocati all’estero, a tutto beneficio di nuova occupazione e di un più elevato livello di ricchezza economica.

Dopo i prorompenti sviluppi dell’informatica, stiamo perciò assistendo, con lo sfruttamento dello shale gas, all’ennesimo episodio di “distruzione creativa” congenita al capitalismo, che tende via via a modificare assetti ed equilibri radicati e a produrne di nuovi. Da questo punto di vista, non sono da sottovalutare le possibili ripercussioni geopolitiche per esempio sui Paesi del Medio Oriente e sulla Federazione Russa, che rischiano di perdere la loro posizione di preminenza come esportatori di idrocarburi.

Gli Stati Uniti potranno infatti offrire gas naturale all’Europa Occidentale facendo concorrenza alla Gazprom russa e infrangendo il suo progetto di sfruttare i propri oleodotti che portano il gas dall’Asia Centrale attraverso il Mediterraneo orientale e il mar Baltico e porre l’intero Vecchio Continente in una condizione di dipendenza nel lungo termine. Inoltre potranno esercitare maggiori pressioni sui Paesi Arabi i cui bilanci sono legati a quotazioni del greggio intorno ai 100 $ al barile, valori che sembrano destinati a scendere. A trovarsi in maggiore difficoltà saranno i giganti dell’Asia (Cina e India) obbligati ad acquistare petrolio dagli sceicchi del Golfo bisognosi di rimpiazzare il cliente a stelle e strisce. Una prima avvisaglia di un cambiamento negli equilibri geopolitici si è manifestato nel mese di maggio con l’accordo tra Cina e Russia per la fornitura trentennale di metano del valore di 400 miliardi di dollari, consentendo a quest’ultima di incassare un’importante vittoria sul piano politico in una fase di forti tensioni sulle forniture all’Europa.

Crisi energetica

Sulla rivoluzione energetica innescata dallo shale gas pesano tuttavia le incognite ambientali connesse alla tecnica del fracking. Attualmente le aziende americane che operano in questo settore non hanno l’obbligo di dichiarare quali sostanze utilizzano per il processo di estrazione, ma grazie ad alcune analisi indipendenti sappiamo che, tra le altre, nel mix di additivi si possono trovare non solo naftalene, benzene, piombo, diesel, acido solforico, cloruro di benzile, acido nitrilotriacetico, ossido di propilene, ossido di etilene, ma anche uranio, radio e mercurio, tutte sostanze cancerogene e radioattive, molto nocive per la salute dell’uomo. Roba da far gelare il sangue nelle vene. Ancor di più se si pensa che negli Stati Uniti sono oggi attivi più di 20mila pozzi, e il numero è destinato inesorabilmente ad aumentare.

Oltre alle malattie c’è poi la desertificazione dei terreni sovrastanti i giacimenti, l’inquinamento atmosferico, dato dalla dispersione fisiologica nell’atmosfera di circa il 7,5% del gas estratto, e una non ancora ben chiarita relazione con dei terremoti accaduti nelle vicinanze di alcuni giacimenti. Tra questi, l’episodio più vicino a noi, in cui è stato messo in relazione un terremoto con la pratica del fracking, riguarda il sisma che ha colpito l’anno scorso l’Emilia-Romagna, ma gli studi su quest’attinenza sono ancora allo stadio iniziale.

Accanto a tutto ciò c’è poi il problema dell’acqua potabile mista a gas: negli Stati Uniti, in alcune case vicine alle zone di estrazione, se si avvicina una fiamma ad un rubinetto aperto l’acqua si incendia.

A questo proposito, il principale problema da affrontare è rappresentato proprio dall’acqua. Quest’ultima, come abbiamo visto prima, è fondamentale nel fracking, perché ad altissima pressione procura le fratture nella roccia e veicola la sabbia e gli additivi chimici. Il consumo di acqua nel processo è altissimo: per ogni pozzo ne vengono utilizzati dai 4 ai 10 milioni di litri, e ogni pozzo può essere fratturato fino a 20 volte. Sarebbe da pazzi e criminali mettere in pericolo una tale risorsa, base stessa della vita umana.

CrisiPreoccupazioni di questo tipo hanno fatto sì che in Europa non si siano ancora utilizzate queste nuove tecnologie. In effetti, giacimenti importanti sono stati individuati sia in Polonia, dove anche l’Eni ha acquistato delle concessioni, sia in Francia (in particolare nel sottosuolo dell’altopiano di Larzac, nella parte sud-occidentale del Paese), mentre in Italia, anche se ufficialmente non vi è estrazione tramite fratturazione di rocce scistose, in realtà tentativi di ricerca e trivellazione sono stati fatti sia in Emilia-Romagna sia in Toscana. Tuttavia, nonostante questi ritrovamenti e l’importanza della materia, l’Europarlamento non ha ancora colmato il vuoto legislativo e ogni Paese va avanti in ordine sparso: Francia e Olanda hanno scelto di proibire la tecnologia del fracking, mentre Germania, Polonia e Danimarca temporeggiano e in Italia non è neanche iniziata una seria discussione sull’argomento. L’unica eccezione è la Gran Bretagna che ha varato un pacchetto di incentivi fiscali per spingere le imprese energetiche ad investire in tale settore.

Alla fine di questo breve percorso attraverso rocce scistose e shale gas, il dato di fatto indiscutibile è che l’era degli idrocarburi potrebbe essere ben lungi dal finire. Negli anni Novanta l’ex ministro del petrolio saudita, Zaki Yamani, ammonì i rappresentanti degli altri petro-Stati con queste parole: “l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre”. Quello che il ministro intendeva è che lo stesso sarà per gli idrocarburi: smetteremo di utilizzarli non quando saranno esauriti, ma perché avremo trovato una forma di energia più affidabile, economica, abbondante ed ecologica. Nel frattempo probabilmente assisteremo ad una lunga fase di transizione in cui petrolio, metano, carbone e altre forme di energia convivranno insieme.

Pertanto, quando potremo finalmente abbandonare gli idrocarburi come fecero i nostri antenati con le pietre? Non conosciamo la risposta, ma forse vale la pena ricordare che il Medio Evo, considerato una fase storica di transizione, durò circa mille anni.

L’avvento di più efficaci, raffinate e soprattutto economiche tecnologie di ricerca geologica, sviluppo e produzione applicate ai giacimenti, sia convenzionali sia non convenzionali, sta avviando una nuova era degli idrocarburi e del gas naturale

Rubrica: 
Ultima modifica 16/01/2015