Gusto, un senso minore

Gusto, un senso minore

All’interno di ogni cultura il concetto di bontà varia da un palato all’altro in relazione alla storia personale

Se pensiamo che l’essere umano è l’unico che cuoce il cibo ed in grado di concepirlo, di gustarlo e di raccontarne le sensazioni, di creare dei confronti, dei ricordi, delle esperienze, se pensiamo a tutto questo, potremmo dire: “Gusto ergo sum”.

Ed il gusto si è trasformato, nel corso dei secoli, in un’avventura intellettuale, sia pure nella quotidianità, facendo lavorare, tramite il corpo, la mente, dando vigore alle personali passioni, ai desideri, ai ricordi.

Proviamo, allora, a considerare il gusto la “intelligenza del palato”?

E quanto l’uomo, nello studio dei vari sensi, ha dedicato al gusto?

Non sono molti i libri dedicati allo studio del gusto mentre vi è una sterminata pletora di libri sull’alimentazione, sul cibo, sulla cucina, sulla tavola. Eppure, fra le varie denominazioni che si possono dare al gusto, ve n’è una che appare profonda nella enunciazione: il gusto è il senso che ci mette in contatto con gli alimenti, facendone conoscere il sapore e senza il quale non esisterebbero le scienze gastronomiche, né, più in generale, le scienze sensoriali.

La causa di tutto questo risiede nel fatto che la riflessione filosofica di oltre 2500 anni ha contrapposto i sensi all’intelletto, distinguendo i sensi corporei da quelli cognitivi, delegati, per loro stessa natura, ad una conoscenza più elevata.

“Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e bere?”, dice il Socrate di Platone nel Fedone. “Niente affatto”, risponde Simmia. 

Si riteneva cioè che la brama di cibi e bevande fosse una delle pulsioni più basse in quanto appartenenti alle necessità animali, mentre i piaceri della conoscenza sono di pertinenza della spiritualità.

Hegel estromette i nostri sensi carnali, gusto, olfatto, tatto, dalla possibilità di convivere con l’arte. Il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Così la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la danza, la poesia o il cinema sono storicamente fra le arti, per definizione, ma è difficile dare all’attività culinaria o alla profumeria un riconoscimento artistico.

Così il gusto è considerato un senso minore, più carnale, più viscerale, enormemente soggettivo e senza alcuna capacità di dare “conoscenza”. Pensate a quegli elementi che si esprimono nella vista (un quadro, ad esempio) o nell’udito (una sinfonia di Mozart): sono più duraturi, mi verrebbe da dire “stabili”, mentre i sapori ed i profumi sono parte di un effimero immediatamente pronto a svanire. Il che li colloca in un mondo talmente personale che rende praticamente impossibile includerli in un discorso teoretico.

Ne volete una riprova?  “De gustibus non est disputandum” proprio perché un approfondito studio teoretico diviene praticamente impossibile. Così per secoli i cosiddetti sensi “nobili”, vista e udito, hanno sopraffatto, per secoli, il gusto.

D’altronde, come dicevo, la sensibilità gustativa è una delle componenti più carnali della nostra conoscenza e le parole con cui la descriviamo dovranno tener conto di questa “corporeità” e solo gli animali umani, in quanto parlanti, hanno tramutato l’atto del gustare in un “sapere” comune, condiviso, che produce sempre una valutazione.

In questo senso è stato risolutore il pensiero di Brillat-Savarin che ha scritto che solo l’uomo sa mangiare, l’uomo, il grande buongustaio della natura.
 

Tutte le scienze cognitive, come dicevamo, hanno privilegiato la vista e l’udito, mentre la facoltà di “conoscere” attraverso la bocca ed il naso rimane poco studiata. Forse perché sono sensi profondamente legati al cibo quelli che esprimono maggiormente la nostra natura “animale”, associati al piacere del corpo, piaceri considerati frivoli, se non addirittura fonte di sregolatezza.
 

Un inizio di studio culturale sul gusto lo si deve a Brillat-Savarin con la sua “Fisiologia del gusto o meditazioni di gastronomia trascendente”, pubblicato nel 1825, quasi due secoli fa. Nacque nei secoli XVII e XVIII l’affiancare al significato “sensoriale”, l’accostare alla parola gusto una facoltà di giudizio estetico, la capacità dell’uomo di riconoscere le cose belle, ed è allora che nasce la necessità di “educare al gusto estetico, vestire con gusto, avere il gusto”.
 

Dove affonda le radici il gusto di ciascuno di noi? Il gusto si costruisce nell’infanzia, in quella cucina che Enzo Biagi, richiesto di voler dire quali erano i suoi canoni del buono, rispose: “La cucina dell’amore.” Quella cioè fatta dei pochi piatti che la mamma gli faceva da ragazzo, piatti di una cultura familiare carichi di valore sentimentale ancor più che di valore gastronomico.
 

Queste nostre primissime memorie, fra le più tenaci, riguardano odori e sapori che poi  ci scorteranno nella vita adulta influenzando i nostri gradimenti o le nostre  repulsioni fino a diventare veri e propri gusti.
 

Bisogna anche ammettere che non vi è alcuna educazione al gusto da parte delle scuole e la cultura, anch’essa industrializzata, ha provocato un tale livellamento delle conoscenze alimentari, una tale incapacità di confrontare, di conoscere, da generare, come dice Carlin Petrini, una inerzia gustativa tanto che la vita cittadina, priva della ricchezza odorosa e gustativa della natura, fa perdere la curiosità dei gusti e degli odori. Non si distingue più il buono dal cattivo e ci si abitua al mediocre.
 

Comunque ogni cultura è convinta di avere la cucina migliore, nonostante questo imbarbarimento, ed è portata ad rendere assoluto il valore dei propri gusti e disprezzare o ridicolizzare quelli delle altre culture. Ed anche all’interno di ogni cultura il concetto di bontà varia da un palato all’altro in relazione alla storia personale. Il fatto è che il gusto è un atto del giudizio che ti fa separare ciò che ti piace da ciò che non ti piace. Poiché il giudizio è personale ne deriva che anche il gusto è personale e, di conseguenza, permette a chiunque di esprimere un giudizio sul cibo con validità assoluta, solo per lui.
 

Teniamo perciò sempre presente, noi Accademici, quando valutiamo una cena o un piatto, la assoluta legittimazione del nostro giudizio che può anche contrastare con il giudizio generale, cioè con la cosiddetta “oggettivazione” del gusto.
 

In questo è importantissima la funzione dell’Accademia, secondo la linea che da Orio Vergani in poi è sempre stata coerente e continua! 

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Ultima modifica 25/02/2016