ASCOLI e lo Stato Pontificio

A scoli, posta lungo l’ultimo tratto dell’antica Via Salaria, nel punto in cui il fiume Tronto riceve le acque del Castellano, è stata per secoli un centro confine tra i domini marchigiani della Chiesa e il Regno di Napoli. L’espansione a nord, in direzione della costa adriatica e del porto  peschereccio di San Benedetto, era limitata dall’influenza sulle Marche meridionali della rivale Fermo; già pochi km verso sud est, invece, la piccola val Vibrata era contesa dai Teramani. A metà del 1200 il governo angioino aveva realizzato, a presidio, la fortezza di Civitella; tre secoli dopo anche i Papi avevano predisposto a un eventuale attacco d’artiglierie le due fortezze volute nel XIV secolo da Galeotto Malatesta per garantirsi il controllo sulla riottosa Ascoli: nel 1540 Paolo III finanziò i lavori per quella orientale, che controlla l’accesso (dall’antico Ponte di Cecco)
a Porta Maggiore; nel 1564 Pio IV per quella che dominava la città dal colle dell’Annunziata, verso ovest. Più che a supporto di un’espansione verso sud (ipotesi ormai irrealistica: le logiche territoriali delle antiche signorie feudali avevano sempre meno peso nell’ambito dello scacchiere  diplomatico europeo) le rocche dovevano servire a proteggere i magazzini e gli opifici di una città nella quale il ceto dei possidenti aveva sempre avuto l’ambizione d’integrare i proventi del suolo (acqua sufficiente e mercato agricolo di un vasto entroterra, sino ai Monti della Laga) con
quelli delle attività artigianali nel settore del cuoio, delle fibre tessili (tra cui la seta), delle ceramiche e della carta.

Nel corso del ‘700 ad Ascoli si accentua il numero dei contadini, o ex contadini, che trasferiscono la residenza in città, dove spesso vanno ad abitare i mezzanini o i piani alti delle case dei nobili di cui sono a servizio. Per gli ottimisti tale fenomeno andava nella direzione di una progressiva integrazione sociale; per i pessimisti era invece un segnale della (relativa) decadenza economica del Piceno in rapporto ad altre zone d’Italia. Dove il surplus di manodopera generato dall’aumento (generale) dei residenti e dalle migliorie agricole aveva stimolato la  produzione industriale, e i “popolani” non trovavano impiego come servi, ma come operai.

Alcuni casi esemplari: negli anni ’70-’80 i marchesi Sgariglia, protagonisti della politica locale fin dal ‘300, affidarono a Lazzaro Giosafatti (figlio e nipote d’una famiglia di scultori in pietra cui si debbono le facciate e i portali di alcuni dei più importanti edifici cittadini) i lavori di  ampliamento della grande villa tardo barocca sorta nella frazione di Campolungo, a est di Ascoli; era una ostentazione di prestigio: solo dei “veri” ricchi potevano permettersi di destinare un vasto appezzamento a parco, sottraendolo agli usi agricoli. Un secondo esempio: nel 1787 Valerio Malaspina, abate del convento di S. Angelo Magno, degli Olivetani, riservò parte di uno dei cortili alla produzione di maioliche. Nei primi anni l’impresa venne diretta da Nicola Giustiniani, poi subentrarono nuove figure: semplici finanziatori (il conte Francesco Gigliucci);  imprenditori (i fratelli Giacomo e Agostino Cappelli, membri del patriziato); lavoranti specializzati (Giorgio Paci, capostipite di una dinastia di ceramisti e artisti). Un terzo caso, infine: tra il 1792 e il 1794 Luigi Merli ottenne in “enfiteusi perpetua” dalla Camera Apostolica due mulini, una gualchiera (macchina per la lavorazione dei tessuti) e l’antica Cartiera Papale, che secondo alcune fonti ormai da alcuni decenni lavorava in perdita, non potendo reggere la concorrenza di Fabriano; Luigi e i suoi discendenti assunsero un ruolo di primo piano nell’imprenditoria locale; resta però il dato di fatto che la forza motrice idraulica da “industriale” tornava a essere “agricola” (mulino).

Sia i Cappelli che Merli si erano mossi in un periodo di crisi dell’antica diocesi ascolana, “sede vacante” dal 1792, alla morte di Pietro Leonardi, che l’aveva retta per oltre trent’anni. Il nuovo (arci) vescovo, Giovanni Andrea Archetti, in carica dal 1795, era di origine bresciana, e reduce da una lunga missione diplomatica in Polonia; prima che potesse comprendere appieno le complesse dinamiche locali, venne coinvolto nella lunga fase “rivoluzionaria” che, sull’onda degli eventi di Francia, da quell’anno coinvolse in pieno anche lo Stato Pontificio, costretto a cedere  Bologna.

Nella Repubblica e “sotto” Fermo

Il 10 febbraio 1798 il generale Louis-Alexandre Berthier entrò in Roma; il papa-re Pio VI venne deposto e il 15 febbraio proclamata la Repubblica; il Consiglio generale di Ascoli vi aderì il 28, proponendosi di affidare la propria rappresentanza in parti uguali “ai nobili, ai dotti, ai mercanti, ai contadini”; venne piantato l’albero della Libertà in P.zza del Popolo e istituita la Guardia Civica, congedando il piccolo contingente di gendarmi còrsi di stanza a P.ta Maggiore. Archetti, che nel 1797 aveva nominato quale proprio vicario generale il giovane mons. Francesco Castiglioni (futuro Pio VIII), si rifiutò di venire a patti con i francesi, e per ordine del comando di Macerata il 18 marzo fu trasferito con altri cardinali prigionieri a Civitavecchia, poi gli fu consentito d’imbarcarsi per Gaeta. Nei mesi seguenti anche ad Ascoli andò assumendo una certa
consistenza il movimento delle insorgenze, cioè di opposizione armata alle truppe Cisalpin-francesi, le quali dal 28 novembre 1798 vennero attaccate dai contingenti austro-napoletani. Il capo delle “truppe in massa”, che il nuovo governo definiva “banditi”, era il contadino-fabbro Giuseppe Costantini, di Lisciano, detto “Sciabolone”. Tra il gennaio e l’estate del 1799 batté ripetutamente sul campo e all’interno della stessa Ascoli truppe più armate (anche di cannoni) e meglio addestrate delle sue, collegandosi anche ad altre bande d’insorgenti marchigiani. Per le quali fu un duro colpo la perdita dell’unico loro vero ufficiale, Giuseppe Lahoz Ortiz, disertore dell’esercito Cisalpino, caduto nell’ottobre 1799 durante l’assedio di Ancona, iniziato dopo che (il 30 settembre) era caduta la Repubblica Romana, lasciando un lungo strascico di risentimenti spesso anche tra membri della medesima famiglia, a seconda dell’adesione o meno agli ideali “liberali”, notoriamente anticlericali.

Le truppe francesi tornarono nella Capitale solo il 2 febbraio 1805. In giugno Archetti, molto vicino al papa Pio VI, eletto nel 1800 a Venezia, rifiutò la nomina a vescovo di Brescia offertagli personalmente da Napoleone e poi tornò ad Ascoli, dove morì pochi mesi dopo. Nei primi anni del pontificato di Pio VII Ascoli era stata soggetta al Delegato apostolico di Macerata; nell’aprile del 1808 le Marche vennero annesse al Regno d’Italia, e Ascoli venne inclusa con Montalto e Camerino nel Dipartimento del Tronto, subordinata al prefetto di Fermo. Nel 1814, caduti sia Napoleone che il “napoletano” Gioacchino Murat, tornò il governo del papa-re, che decise di mantenere Ascoli subordinata a Fermo. L’occasione per emanciparsi venne offerta alla città nel febbraio del 1831 dal gen. Giuseppe Sercognani, durante la breve stagione dei “moti” rivoluzionari da cui scaturì un’effimera entità statale che coinvolse una vasta area dell’Italia centro-settentrionale: le cosiddette Province Unite. La repressione dei “carbonari” e dei liberali in genere posta in atto negli anni seguenti dal governo del nuovo pontefice Gregorio XVI,  succeduto a Pio VIII, fu molto dura; egli tra l’altro decise d’ignorare bellamente le richieste formulate fino dal 1831 dagli ambasciatori a Roma di tutte le potenze europee, che chiedevano l’abolizione di alcuni privilegi ecclesiastici e una maggior trasparenza ed equità nell’amministrazione della giustizia e delle finanze della Santa Sede.

Ciònondimeno Ascoli mantenne l’autonomia amministrativa; anzi, data la grande produttività dei terreni e la prossimità al confine, la popolazione subì meno che altrove gli effetti deleteri dell’innalzamento del dazio sui grani d’importazione imposto dal Papa. Ciò vale anche a spiegare  come mai l’adesione ai moti risorgimentali del 1848-49 sia stata meno partecipata che in altri centri delle Marche, nonostante l’episodio dell’abbraccio tra Garibaldi e i figli di Sciabolone (il quale era morto a Capua nel 1808, poco dopo essere passato dai borbonici ai francesi). Dal punto di vista amministrativo, l’annessione al Regno di Sardegna del 1860 fu l’occasione per Ascoli (guidata all’epoca dal podestà, poi sindaco Marco Sgariglia) di prendersi una rivincita su Fermo: infatti il Commissario straordinario sabaudo nelle Marche, Lorenzo Valerio, affidò la città a un protagonista ingiustamente un po’ dimenticato del Risorgimento, Pericle Mazzoleni, ex mazziniano ed ex impiegato del Banco Torlonia di Roma, il quale ottenne che della nuova Provincia Ascoli Piceno fosse il capoluogo, e Fermo la sede d’una sottoprefettura.

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Ultima modifica 13/02/2019