Tra BREXIT e TRUMP, un mondo in cambiamento

Che piaccia o no, quello che è successo tra giugno e novembre 2016 mrappresenta una rivolta democratica di svariati milioni di persone del ceto medio contro un’élite che continuava a ignorarne le preoccupazioni.

Il 23 giugno scorso i sudditi di Elisabetta II hanno sancito con un voto referendario l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (Brexit). Martedì 8 novembre gli elettori statunitensi decretavano la vittoria di Donald Trump alle presidenziali, investendolo della carica di 45° Presidente degli Stati Uniti.

Questi due eventi hanno certamente segnato il 2016 e probabilmente avranno conseguenze nei prossimi anni. Tentiamo di analizzarne le cause e gli impatti economico-finanziari che ne potrebbero derivare.

Per provare a spiegare le ragioni della Brexit c’è chi ha suggerito di partire dal periodo in cui, circa 8.500 anni fa, i ghiacci polari si sciolsero, il livello degli oceani salì e la bassa striscia di terra che collegava l’Inghilterra al continente sparì sotto il mare. Così cominciò il rapporto a debita distanza tra i britanni e l’Europa e l’evoluzione della mentalità scettica, a

volte ostile, che lo accompagna. Se le si guarda dal punto di vista storico, quindi, le anomale relazioni dell’isola con il continente non sono tanto il risultato del referendum di giugno, quanto di 44 anni di appartenenza poco convinta all’Europa Unita. D’altronde, il Regno Unito è entrato nel progetto europeo solo negli anni ’70, in un periodo di grandi dubbi, anni negativi.

A quel tempo, Paesi come l’Italia sembravano essere Paesi di successo, con una crescita fantastica: per questo le élite britanniche hanno pensato che “se non si può sconfiggere una forza, bisogna assecondarla”.

Quindi hanno aderito proprio per questioni economiche.

L’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea sarebbe anche sopravvissuta a queste motivazioni storico-culturali, se non ci fosse stato il problema dell’immigrazione. Il paese ha una lunga tradizione di accoglienza e di capacità di integrare milioni di cittadini. Ma da qualche decina di anni stanno arrivando troppe persone e in un lasso di tempo troppo breve per consentire l’assimilazione, o per permettere ai servizi pubblici di adeguarsi.

La preoccupazione per questo e per le conseguenze che ha avuto sulla disponibilità di assistenza medica, alloggi e posti nelle scuole, è stata non solo ignorata dai mezzi d’informazione, ma spesso liquidata come una forma di razzismo. Dato che i due principali partiti politici erano, almeno fino a poco tempo fa, poco propensi ad affrontare il problema e meno che mai pronti a fare qualcosa per risolverlo, per le persone colpite da questi profondi cambiamenti non c’era al cuna possibilità di sfogo elettorale. E quindi la diga ha ceduto al momento del referendum. A torto o a ragione, l’Unione Europea era vista da milioni di persone come in parte responsabile dell’immigrazione incontrollata, della quale, dati i progetti di espansione di Bruxelles, non si vedeva la fine. La gente ha avuto modo di esprimere i propri sentimenti in una cabina elettorale.

Le ragioni della Brexit, secondo molti economisti, sono da ricercare anche nel deterioramento delle condizioni economiche. A supporto di questa tesi viene riportato il dato relativo alla crescita della disuguaglianza del reddito, che mostra come dalla fine degli anni ’90 la condizione dell’1% della popolazione sia migliorata in maniera significativa, mentre quella della classe media abbia imboccato una parabola discendente all’indomani della crisi del 2008. A conferma dell’aumento della disuguaglianza all’interno della società britannica, è possibile constatare come negli anni che vanno dal 1998 al 2009 il 10% più povero della popolazione abbia visto calare di oltre il 10% il proprio reddito medio, mentre quello guadagnato dal decimo percentile della popolazione più ricca ha registrato un incremento di oltre il 35%.

Al di là delle cause che hanno portato alla Brexit, molti si interrogano sulle conseguenze di tale decisione.

Un primo effetto lo si è visto sulla sterlina, che si è fortemente svalutata. E questo porterà un aumento dei prezzi all’importazione, con incremento dell’inflazione e calo del potere d’acquisto dei consumatori.

In questo senso, emblematica, l’iniziativa presa dalla società alimentare americana Mondelez, che per ovviare a questo inconveniente ha deciso che le storiche barrette di cioccolato (Toblerone) conterranno meno piramidi, a parità di prezzo. Guardando più avanti, l’incertezza creata dalla gestione dell’esito elettorale avrà un impatto significativo sugli investimenti, con inevitabili ripercussioni sull’economia e sul mercato del lavoro. Dal momento che molte imprese estere hanno deciso di trasferire la propria sede fuori dal Regno Unito, il governo britannico sta pensando di ridurre la tasse societarie, a costo di peggiorare lo stato di salute del bilancio pubblico. Infine, sarà compito del nuovo Primo Ministro riparare i danni conseguenti all’aver perso l’accesso al Mercato Unico Europeo, senza contare la necessità di stipulare nuovi accordi commerciali con i Paesi extracomunitari, partendo da una posizione di necessità e debolezza, senza l’ombrello protettivo fornito dall’Unione Europea.

Anche la vittoria di Donald Trump non era stata prevista quasi da nessuno. Quanti avessero dato conto ai sondaggi e alle analisi quasi totalizzanti hanno scoperto che i repubblicani sono riusciti a conquistare, oltre alla presidenza, anche la maggioranza alla Camera e al Senato.

Ma cosa ha spinto una maggioranza silente di americani a preferire un perfetto estraneo alla vita politica e istituzionale a una candidata di collaudata esperienza di governo e dai toni e modi più rassicuranti? La risposta potrebbe essere insita nella domanda, ovvero una delle motivazioni alla base del successo di Trump sarebbe proprio la sua caratura di personaggio ostile all’establishment, profondamente contrario (almeno a parole) alle élite dominanti nel panorama istituzionale e persino economico-finanziario.

Inoltre Trump ha fatto appello a ceti sociali trascurati, totalmente dimenticati, abbandonati, traditi, ridotti anche in grande miseria dalle strutture di potere precedenti. In questo modo ha potuto contare sull’appoggio della classe operaia e dell’elettorato bianco: un po’ come accaduto in Gran Bretagna con la Brexit, Trump ha puntato su quegli Stati la cui economia si basa sulle fabbriche. Durante le primarie

in Michigan, ad esempio, all’ombra della fabbrica Ford ha minacciato l’azienda che se avesse portato a termine il piano di trasferire la fabbrica in Messico avrebbe imposto una tassa del 35% su ogni auto fabbricata in territorio messicano e rispedita negli USA.

Ha poi intimato anche a Apple di fermare la produzione di iPhone in Cina per trasferirla in America: musica per le orecchie degli operai amareggiati e impoveriti, che si sono sentiti esclusi dall’aumento della ricchezza nazionale, che è stata più di carattere finanziario che salariale.

Dopo aver attraversato, in un paio di decenni, una pesante deindustrializzazione, con conseguente disoccupazione e precarizzazione, ulteriormente aggravate da una crisi economica (quella del 2008) tra le più pesanti della storia americana e quindi da una sempre maggiore devastazione sociale, senza prospettive per il futuro dei propri figli, gli operai hanno visto in Donald Trump la possibilità di un radicale cambiamento della loro situazione. Detto questo, le implicazioni economiche derivanti dall’elezione del nuovo presidente non sono ancora chiare, ma se si esaminano le indicazioni programmatiche enunciate durante la campagna elettorale, sembrano quasi emergere due Trump. Uno “reaganiano” che promette un forte taglio alle imposte, deregolamentazione in campo finanziario e ambientale, aumento delle spese militari e ridimensionamento di “Obamacare”.

C’è però anche un Trump “rooseveltiano” che per risollevare la classe media emarginata promette un grande programma d’infrastrutture. I due Trump sono palesemente incompatibili fra loro perché l’insieme del programma farebbe esplodere un debito pubblico già oltre i livelli di guardia. Infatti gli investitori hanno iniziato a prevedere da un lato un miglioramento della congiuntura economica, che si è tradotto in importanti rialzi dei listini azionari, dall’altro un aumento dell’inflazione, che ha comportato un importante ribasso dei corsi obbligazionari.

Accanto a ciò, c’è la promessa di un radicale freno all’immigrazione e di una decisa svolta protezionista, anche se la principale minaccia per l’economia tradizionale non viene dalla globalizzazione, ma dalla tecnologia e nessuno riuscirà a fermarla. Non sappiamo fino a dove Trump vorrà spingersi, ma c’è un rischio concreto che gli Stati Uniti debbano fare i conti con possibili ritorsioni da parte di altri Stati, con impatto sulla crescita economica.

Che piaccia o no, quello che è successo tra giugno e novembre del 2016 rappresenta una rivolta democratica di svariati milioni di persone della classe operaia e della classe media contro un’élite protetta che non le rappresentava e che da troppo tempo continuava a ignorarne le preoccupazioni, considerandole frutto dell’ignoranza e insistendo nel sostenere di essere la sola a sapere quello che era meglio per loro. La volontà popolare sta ricacciando indietro quello che sembrava un processo ineluttabile e la Brexit e la vittoria di Trump potrebbero essere solo i primi due grossi segnali della fine di un mito: la globalizzazione.

Quella favola neo liberista del villaggio globale, multiculturale, sovranazionale, cosmopolita, politicamente corretto e sradicato da qualunque radice identitaria si sta sbriciolando alla base.

A questo punto è in gioco l’intero sistema di valori interni e internazionali su cui si è retto l’occidente dalla fine della seconda guerra mondiale. Dobbiamo confidare che la classe politica moderata ritorni ad ascoltare le istanze di quello che resta della classe media affinché facili populismi non prendano il sopravvento.

Citando Aristotele: “la comunità politica migliore è formata da cittadini della classe media” e di questo bisognerà tenere conto.

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Ultima modifica 06/03/2017